Marionette che Passione! - Convegno Nazionale CON unima (ATTI)

 locandina marionette web

Marionette che Passione è stato il terzo convegno generato da Unima ideato e  con la guida di Specchi Sonori, particolarmente a cura del Segretario nazionale UNIMA  di allora Marianna de Leoni; si svolse a Carrara, nel 2008, intitolato  col titolo dell'opera teatrale di Rosso di San Secondo, proprio perchè il Convegno   poneva particolare attenzione alla drammaturgia della marionetta, anche nel Teatro non specialistico di figura, ma  semplicemente di Arte; fu invitato, fra gli altri, lo studioso di Rosso di San Secondo Prof. Roberto Salsano , docente dell'UnIversità La Sapienza di Roma ed uno dei massimi  critici del Teatro di Rosso di San Secondo.

A distanza di tanti anni ringraziamo ancora il Prof.. Salsano, che poi rimase vicino a Specchi Sonori ad osservare la loro progettualità per una versione  originale con marionette del celebre testo " Marionette che passione!"

IL CONVEGNO ERA DIVISO IN TRE PARTI , CON ALTRETTANTI OGGETTI DI DISCUSSIONE:  

-Il Teatro e il suo doppio  - specificamente sulla drammaturgia

- L'insegnamento che muove  - sulla trasmissione dei sapere e sulla  formazione

- Il filo del discorso: aspeti ulturali, artistici e filosofici condotti dalla tematica del Teatro di Figura 

Di seguito gli interventi di tutti i convenuti

Atti del convegno

Claudio Rovagna introduce

…che ha coinvolto di energie da tutt'Italia in questo nostro incontro, vedremo di analizzare non solo gli aspetti più tipici del teatro di figura con la partecipazione di compagnie e quindi di personaggi illustri del mondo del Teatro di figura, ma nel contempo analizzeremo anche aspetti del teatro ed aspetti dei collegamenti che ci sono fra testi teatrali e teatro di figura. Come per la marionetta che ha un significato nel teatro " classico di parola" e soprattutto nel testo. Abbiamo qui con noi il professor RobertoSalsano dell'Università 3 di Roma :un docente illustre per la sua competenza proprio sul Teatro e sulla figura di Rosso di San Secondo, scrittore prolifico purtroppo poco rappresentato nonostante abbia scritto fra le cose più belle, secondo noi ,del teatro italiano del primo ‘900. Rinnovo i saluti e passo verso le parole direttamente ad Antonietta Sammartano Felici. buon ascolto, grazie

Antonietta Sammartano Felici Presidente UNIMA Italia

      In un convegno che ha come suo filo conduttore (parola quanto mai emblematica)

      MARIONETTE CHE PASSIONE non può mancare chi nel nome delle marionette esiste, chi è, in qualche modo, la casa madre, la prima espressione concreta di un riconoscimento quasi fisico dell’esistenza della marionetta. E cioè l’ UNIMA( Unione internazionale della marionetta)  La storia di questa Unione ha ormai quasi ottanta anni, visto che essa è nata a Praga nel 1929 ed è ancora oggi viva e operante in 63 paesi, con più di 6000 iscritti. L’esistenza di una associazione così particolare, capace di durare nel tempo, di travalicare la sanguinosa frattura della seconda guerra mondiale e la divisione in blocchi contrapposti seguita ad essa, merita una analisi che vada oltre le esigenze, diremmo corporative, che, a prima vista, sembrano connotarla.

La data del 1929 non capita a caso, intorno a quella data si muove un rimescolamento delle idee sul teatro, partito da lontano e riaccesosi vivacemente in quegli anni. La partenza data dal famoso saggio di Heinrich von Kleist AUFSATZ DAS MARIONETTENTHEATER del 1810, in cui Kleist teorizza l’assoluta libertà della marionetta che, grazie alla sua levità, alla sua vis motrix, priva com’è di coscienza, supera la riflessione, la consapevolezza che, invece appartengono all’uomo- attore. In realtà Kleist ha preso a pretesto la marionetta per analizzare , partendo dalla dialettica idealistica ( la triade marionetta-uomo-dio) la condizione dell’uomo, la perdita del paradiso e dell’innocenza, la necessità per esso di “mangiare di nuovo dell’albero della conoscenza”, mentre l’unica entità capace di “coscienza” veramente sublimata è un’entità superiore, forse Dio.

Il saggio di Kleist, dapprima ignorato e poi riscoperto e rivalutato per tutto il XIX e XX secolo ha suscitato interpretazioni alte, simboliche. R. M .Rilke nella quarta delle Elegie Duinesi riprende la metafora della marionetta e anche in uno scritto poco conosciuto Puppen contrappone alla bambola ( Die Puppe), la Marionetta, sotto la cui signoria un poeta potrebbe cadere:

Hoffmann, E.von Bulow, il grande critico e direttore d’orchestra che scrive una biografia di Kleist e vi inserisce il saggio, “notevole e singolare”,Hugo von Hofmannsthall che giudica il saggio di Kleist come un brano filosofico risplendente di comprensione e di grazia, Ernst Junger che lo ritiene “ la più pericolosa ricetta” lasciata in eredità al surrealismo francese, sono fra coloro che ritornano a Kleist con continuo e rinnovato interesse.

Appare chiaro che alla marionetta e ai suoi valori simbolici, messi in luce da Kleist, si siano ispirati Claudel, Hauptmann, Maeterlink e i nostri Antonelli, Cavacchioli, Rosso di San Secondo, o che poi Heinrich Böll faccia dire al protagonista del suo “Opinioni di un clown” .” “…io continuavo a tacere. Lo guardavo soltanto, con gli “occhi vuoti”come una marionetta di Kleist”…”

Nel segno di Kleist era nata a Copenaghen, nel 1827, la nuova danza con la Sylphide di Bournonville e questo rinnovamento prosegue poi con la Taglioni, mentre si era già espresso nel famosissimo Triadisches ballet di Oscar Schlemmer del 1921.

Nelle arti figurative e nel movimento futurista,Depero e Prampolini fra gli altri, si sono ispirati al testo di Kleist creando scenografie ai loro spettacoli con linee e colori di un mondo meccanico, inanimato quasi palcoscenico di quellǗbermarionette che Craig teorizzava nel 1907 in The Mask,.

Infine lo spettacolo di Sophie Taueber a Zurigo nel 1918, fu giudicato da Hans Harp, pittore e scultore francese fra i fondatori del dadaismo, come “un viaggio intorno al mondo” nel segno di Kleist.

Queste premesse fanno meglio comprendere come, quando a Praga si riunì il 5° congresso dei marionettisti cecoslovacchi( in Cecoslovacchia era da sempre vivissima la presenza di marionettisti e di una intensa ricerca sul teatro tradizionale ), l’atmosfera fosse satura di attese e di rinnovamento. Non è un caso che nello stesso anno proprio a Praga nascesse ad opera di Jacobson, Trubeckoj ed altri Il Circolo linguistico di Praga da cui deriverà lo strutturalismo, e che nel 1926 fosse stata fondata a Leningrado da M. Bachtin L’associazione degli amici della marionette. Insomma sono anni di grande fermento intellettuale e di ricerca, per cui l’incontro a Praga , nel 1929,di molti marionettisti, guidati da Frank Wenig e Joseph Skupa determinò quasi spontaneamente la nascita dell’Associazione che prese il nome di UNIMA e i cui iscritti, secondo un’ augurale idea di Wilhem Löwenhaupt si possono chiamare “unimati” persone legate da un’idea comune.

Non sto qui a ripercorrere la storia dell’Unima che ho già tracciato in altra sede e che ha avuto ancora momenti di grande emozione, quando dopo la seconda guerra vi fu, sempre a Praga la ripresa dei Congressi e dell’attività dell’associazione. L’elemento che appare più emozionante è che in piena guerra fredda i componenti del Consiglio direttivo, si trovassero a lavorare in comunità d’intenti pur nella diversità delle posizioni ideologiche. Fu come se l’arte della marionetta e del burattino, in nome di una sua ancestrale condizione, facesse ritrovare in tutti un’anima bambina, capace di andare oltre i contrasti e le opposizioni, per continuare a rappresentare l’eterna incognita dell’ io e della sua ombra.

Oggi l’Associazione è guidata da un Consiglio internazionale con Dadi Pudumjie (India) Presidente, Jacques Trudeau (Canada) Segretario Generale e due Vicepresidenti, Annette Dabs (Germania), Stanislav Doubrava (Rep. Ceca), e continua la sua attività di promozione dell’arte della marionetta e della sua conservazione. L’UNIMA continua a perseguire anche il dettato del suo statuto finalizzato a sostenere i valori umani, fra cui la pace e la reciproca comprensione tra i popoli quali siano la loro razza, le loro convinzioni politiche o religiose, la diversità delle loro culture.

Uno dei prossimi compiti dell’UNIMA sarà la pubblicazione dell’Enciclopedia Mondiale della Marionetta (WEPA), ma anche l’aiuto e l’intervento a favore di membri svantaggiati dell’Associazione, come la repubblica del Mali o il Burkina Faso.

Il Centro-UNIMA Italia, fondato nel 1980 da Maria Signorelli e altri appassionati del teatro di figura, ha conosciuto, in questi quasi trenta anni di vita, momenti molto significativi, con l’adesione di alcune centinaia di iscritti e molte manifestazioni di rilevanza nazionale. La pubblicazione regolare di un notiziario, la presenza dei grandi nomi del teatro di figura, fra cui Otello Sarzi, Mimmo Cuticchio, Claudio Cinelli e altri hanno connotato positivamente questo lungo periodo di vita dell’associazione.

Oggi l’UNIMA soffre della difficoltà in cui si dibattono molte altre esperienze culturali, che devono tener conto della “distrazione” provocata da tanti diversi e accattivanti richiami, ma poiché essa fonda la sua essenza su un ancestrale richiamo all’io profondo di tutti noi, possiamo sperare che essa continui a rappresentarci, a meno che non abbia ragione il personaggio dell’ “Uccello del Paradiso” di Cavacchioli che bisbiglia allo specchio: “Reciti troppo bene per avere un pubblico,marionetta!

Marco Grilli Torino

Bene, buongiorno.

Dunque io comincerei innanzitutto con raccontare una cosa che dicevo prima a Marianna: conosco la fatica che si vive ad organizzare eventi di cultura, come questo, per questa società che ne ha tanto bisogno, e la gente non li coglie... questo è un peccato per noi operatori culturali. Con un evento del genere le persone dovrebbero correre numerose e questo tanto più in un luogo, come questo, dove è presente un'Accademia e persone che frequentano un'accademia.

Spiego perché. Anche se noi ci definiamo " operatori culturali " abbiamo sempre occasione di apprendere qualche cosa che non sappiamo... in Italia abbiamo la fortuna di avere degli " uomini enciclopedia " come Vittorio Zanella…. Persone piacevoli da ascoltare che non sono solo nozionisti .

È da questo punto che vorrei cominciare il mio piccolo intervento. La provocazione che ho fatto, far scrivere come titolo del mio intervento: "Torino non è la città di Gianduja " nasce dal fatto che Torino non   merita Gianduja.

Vi dirò in seguito il perché in modo approfondito.

Voglio prima dire una cosa importante: che il teatro dei burattini deve finire di essere considerato una "nicchia", il suo patrimonio importantissimo deve essere considerato un patrimonio che insegna, che spiega, che racconta... che consente soprattutto al le nuove generazioni di apprendere usi e costumi del nostro popolo, della nostra bellissima terra, della nostra Repubblica, se vogliamo . Questo proprio perché la tradizione che noi portiamo ; io faccio il burattinaio,e porto in giro il personaggio, o il carattere, di Gianduja, volgarmente detto maschera-come diceva Enrico Spinelli prima – purtroppo o per ignoranza si tende a generalizzare, a dire che tutti i personaggi della tradizione siano maschere (e ciò non è assolutamente vero).

La tradizione è un insieme di usi e di costumi e di valori che “raccontano”.Ed ecco perché quando io mi trovo sul mio territorio, nel mio Piemonte, a parlare di burattini, a parlare di Gianduja mi accorgo purtroppo di un’ignoranza generalizzata, purtroppo anche da parte di coloro che rappresentano le istituzioni e che molto spesso mi dicono che è Gianduia è questo… Gianduia e quell’altro… che parlano, che dicono… alcuni dicono che… Gianduia nasce dal gianduiotto! E c’è tutto un procedimento inverso!E’ allucinante!

Allora io ho voluto cogliere questo momento in Toscana per far conoscere chi è questo personaggio, e soprattutto il significato che a questo personaggio.

Questo perché è un personaggio che, differenza degli altri suoi … “cugini”, lo Stenterello, il Meneghino, se vogliamo Fagiolino, se vogliamo Sandrone eccetera ….ha avuto un ruolo importante,un ruolo che ha, diciamo, caratterizzato la storia del Piemonte e successivamente quella dell’unità di Italia; Gianduja è in qualche modo il personaggio simbolo dell’unità d’Italia.

Gianduja, per chi non lo conosce, nasce proprio come burattino.

Nasce come burattino e come vuole la tradizione nasce nel 1808, il 25 novembre del 1808, a Caglianetto, una piccola frazione di Castelalfer , vicino ad Asti,nell’ “interland” astigiano.

Non nasce, così per un caso, nasce perché vi era un’esigenza politica vera e propria, l’esigenza culturale di modificare il suo predecessore, sostanzialmente quella di cambiare il nome ad un personaggio già esistente, cambiare il nome a quello che era il Gerolamo o detto anche, in dialetto nostrano, Girolamo.

Gianduja era presente sulla piazza del territorio piemontese già dal 1630, da allora sino al 1868 continua a girare soprattutto in Piemonte ed in Liguria. Come ho già detto, però, prima di essere Gianduja si chiamava Gerolamo; il problema qual era?Il problema era quello che questi burattinai che ereditarono il personaggio di Gerolamo, intorno alla fine del 700, ovvero Giambattista Sales di Torino e Gioacchino Bellone di Racconigi, cominciarono a lavorare con il teatro dei burattini e con il personaggio di Gerolamo sulla riviera ligure e più precisamente a Genova.

A Genova purtroppo c’era il doge, che si chiamava Gerolamo Durazzo, si chiamava Gerolamo appunto.

Quando la gente andava a vedere gli spettacoli dei burattini cominciava a far confusione, secondo i politici di allora, tra il burattino ed il doge. Il burattino diventava una caricatura del doge, questo non piacque assolutamente tant’è che Sales e Bellone vennero cacciati dalla terra genovese e decisero di ritornare a Torino dove sicuramente, loro pensavano, avrebbero avuto grande fortuna. Ahimè, arrivati a Torino, i nostri due giovani baldi burattinai si trovarono di fronte all’identico problema: sorte o caso vuole che a Torino il cugino di Napoleone Bonaparte si chiamasse Girolamo, e lì ricominciò la stessa trafila.

La città di Torino, cioè il cugino di Napoleone Bonaparte, li bandì da Torino. Banditi vuol dire che furono costretti ad uscire dalle mura dell’allora vecchia   Torino, per chi è pratico di Torino significa che sostanzialmente andarono da piazza Castello alla vicina piazza Vittorio, vale a dire una distanza di circa 800 metri scarsi.

Cosa successe allora? Successe che questo innescò una riflessione importante:” Non si può continuare a lavorare con il Gerolamo, perché ciò ci causa una difficoltà di lavoro, e quindi bisogna pensare a rinnovare…”

Questo fu un primo passo molto importante proprio per quello che molti di noi hanno detto, che ha detto anche Maurizio Corniani, riguardo a suo padre, e cioè voler fare un determinato mestiere perché ci si crede, lo si ritiene fortemente importante ed utile.

Così Sales e Bellone, andarono, si dice-perché non vi è traccia di questo ed io lo posso asserire tranquillamente-andarono, si dice, a Caglianetto e li cominciarono a pensare.

Da lì sorsero tutte le varie leggende, per esempio quella che un giorno passeggiando incontrarono un vecchio contadino dalla faccia simpatica che gli abitanti chiamavano Joan ‘d’la duja , ovvero” Giovanni del doppio boccale” in dialetto astigiano,o “Giovanni della brocca” se in dialetto torinese, perché sempre ubriaco. Da lì dissero:” Questo è un personaggio o buffo, è un personaggio comico…” perché aveva le guanciotte ed il naso rosso, portava uno strano cappello… e da lì Joan ‘d’la duja potremo chiamarlo Gianduja, questa è una prima versione. Una seconda versione dice invece che Giandoja, scritto con la”o”, nasce da Giovanni Battista Sales e Gioacchino Bellone, nativo di Oja, una piccola frazione proprio vicina a Racconigi.

Ecco perché molte volte si trova anche nei copioni, a seconda che siano scritti da Sales o da Bellone, il Gianduja scritto con la u, o il Giandoja scritto con la o. Non è questa, però, la cosa importante, importante è il carattere che assumerà Gianduja dal 1808 in avanti: un personaggio assolutamente dalla parte dei giusti, dalla parte del popolo,perciò un personaggio che combatte assolutamente le ingiustizie.

Avvenne però un caso storico che io vi riporto, perché è molto, molto interessante: Gianduja come burattino, nel 1840, scompare totalmente   dalla scena perché la città di Torino lo rifiuta, lo rifiuta come personaggio, e viene adottato, vent’anni dopo, come personaggio del carnevale torinese e li,assumeuna grande importanza proprio perché diventa simbolo, viene nominato a simbolo.

Perché? Perché in tutte le commedie, a parte la prima che è “le Novantanove disgrazie”,poi andando avanti nel tempo Sales e e Bellone e fanno una cosa straordinaria: raccontano in questo modo tutta la storia del Piemonte e di Torino; ecco perché è importante salvaguardare la tradizione del teatro dei burattini, perché racconta una storia molto importante. Si dice infatti che Gianduja sia uno di quei personaggi che marciano contro i francesi nel 1706, in difesa del popolo torinese, ma egli marcia con il fucile puntato verso i Savoia perché di loro non si fidava, perché Gianduja era molto scaltro è molto intelligente diceva: “ E’ importante difendere la propria terra, ma mai fidarsi dei propri padroni” .

Questo caratterizzò tutta la storia di Gianduja, tant’è che si racconta che nel 1868, durante il carnevale, in piazza San Carlo, mentre passava con la carrozza il Re… Gianduja lo fermò e gli disse:” Io per voi ho dato tutto , ho dato l’anima, il corpo, ho dato anche la camicia…”, questo proprio perché il popolo di Torino aveva preso Gianduja quale personaggio simbolo della resistenza, ma non solo, quale personaggio della difesa della cultura popolare, che in quel periodo stava scomparendo perché i Savoia chiamavano molti artisti dalla Francia, dal resto dell’Italia, chiamavano dall’esterno gli architetti e stavano mettendo in disparte la cultura della terra torinese e della terra piemontese.

C’è da dire poi un’altra curiosità, che nel 1868, sempre a Torino vennero organizzate delle celebrazioni proprio in onore di questo burattino, di questo Gianduja, chiamate appunto le giandujelles, che altro non erano che una ricostruzione storica della nascita di Gianduja, che nasce appunto, secondo la ricostruzione delle giandujelles, da una brocca di vino dove viene immerso un bambino e questo bambino quando ha smesso di bere salta fuori dalla brocca ed è diventato Gianduja, bell’e cresciuto. Le giandujelles vengono celebrate per cinque anni, dal 1868 per cinque anni,dopodiché si chiude l’epoca: Gianduja scompare totalmente dalla scena perché la città di Torino lo rifiuta come personaggio e decide di adottarlo semplicemente per il carnevale.

Per ciò nel carnevale rispunta e fuori dal carnevale viene messo da parte.

Fino a quando… fino a quando nella città di Torino arrivano e si affermano i burattinai della famiglia Lupi, i Ferrari erano già presenti, arriva la famiglia Lupi, nel 1818 a Torino, e porta il personaggio di Arlecchino come suo personaggio, non Gianduja.

Erano una famiglia di marionettisti ed aprirono un teatro per le marionette, sempre con Arlecchino, finché nel 1891 decidono di abbandonare Arlecchino e di recuperare il personaggio di Gianduja. Questo non per un interesse culturale, per un interesse puramente economico: Gianduja in Piemonte, a Torino,”tira” , crea pubblico, perché conosciuto, quindi la gente viene a teatro,mentre Arlecchino è assolutamente meno conosciuto. Fanno quindi un’operazione del tutto commerciale, tant’è che riescono ad aprire un teatro, il teatro DANGEANT, al cambio proprio nel 1891che diventa il teatro Gianduja. Sto parlando del primo e vecchio teatro Gianduja che era nel 1891 in via delle Rosine, che successivamente ai giorni d’oggi si spostò nuovamente, dopo la quarta generazione, ed andò in via Santa Teresa, dove oggi resta un cumulo di polvere e null’altro…ed ha perso tutto la sua magia.

Inizialmente ho detto che Torino non è la città di Gianduja, non è la città di Torino la sua città, poiché questa città, io vivo e faccio cultura a Torino,almeno credo di fare, non ha capito non dico i burattini, perché, haimè ,è una battaglia persa,ma non ha capito il significato dell’importanza che hanno soprattutto i personaggi della tradizione.

Torino non ha capito cosa portano e cosa consegnano al nostro futuro: consegnano un pezzo di storia, un pezzo di vita molto importante che ha caratterizzato una determinata regione, una determinata città.

Si dice che , a Caglianetto, proprio nel paese dove nacque Gianduja, fu composto il primo inno d’Italia,fu scritta lei la prima carta costituzionale dell’Italia con Camillo Benso ,con Mazzini…

Gianduja non a caso porta la coccarda tricolore sul suo cappello…proprio a simbolo di tutto questo.

C’è un pezzo che si chiama “ Il Torin ca bugia , la Torino che si muove” che racconta il passaggio della capitale da Torino a Firenze, prima di arrivare a Roma, con un Gianduja che fa da intermediario tra i politici ed il popolo.

Lo racconta non a mo’ di farsetta, ma lo racconta con un dettaglio storico molto importante. Torino è uno di quei casi, come a Milano c’è il caso delle marionette Colla, che non riescono a trovare un luogo in uno spazio, Torino ,dicevo , è un’altra di quelle città, una città che non ha saputo assegnare la giusta importanza ad uno dei suoi veri eroi.

Forse perché Gianduja è nato” senza gambe”, essendo burattino, come dire… menomato, o diversamente perché gli interessi oggi giorno portano verso una politica che guarda alle cose esteriori, guarda ai prodotti esteri, perché si considera che tutto quello che arriva da fuori sia sempre migliore e sia sempre più potente di ciò che appartiene alla nostra tradizione e dalla nostra cultura. Proprio in un periodo, oggi giorno, quando le diverse culture si incontrano e in cui non ha senso dire che vinca la cultura più forte, quando sarebbe invece giusto dire” Vince la cultura” e nient’altro… la cultura che è alla base del dialogo, perché la cultura è conoscenza.

Per me burattinaio, quindi, che incontro tanta gente, tante persone di altri Paesi è una gioia spiegare il mio ruolo di burattinaio e quindi di animatore,ma è anche importante spiegare il ruolo di questo personaggio e perché esista.

Questo è il vero messaggio ,la vera forza che ci sostiene e ci fa fare questo mestiere ed è per questo che all’inizio dicevo che è un peccato che quando si va a parlare di burattini e di marionette la gente non colga l’importanza di questo, perché si pensa ad un teatro minore privo di identità.

Mi auguro che nel 2008, ora siamo proprio alla vigilia del compleanno di Gianduja- noi siamo una compagnia torinese che fa questo di mestiere siamo forse l’unica vera e propria compagnia( A T orino) che si occupa di burattini di marionette- il nostro progetto che voleva la rievocazione delle celebrazioni per Gianduja e Giandujelles a Torino non è passato perché ci dicono: ” I burattini non sono un tema di interesse pubblico”. Noi per fortuna abbiamo una seconda casa forte che è castello al ferro, dove Gianduja incontrerà i suoi cugini, dal 20 al 25 novembre. Ci sarà anche il debutto del primo spettacolo di Giovan Battista Sales. Ovvero “Gli anelli magici delle novantanove disgrazie di Gianduja” per riportare alla luce il primo copione di Sales con Gianduja protagonista.

Ecco per me questo è un dramma: quindi Torino non è una città che meriti di avere Gianduja.

Enrico Spinelli Firenze

Ora.... capite bene che parlare di un'esperienza artistica nel territorio toscano e cioè parlare del proprio lavoro è molto imbarazzante; dopo le parole di Antonietta Sammartano che ha così bene parlato del mondo internazionale dei burattini tornare al proprio piccolo è imbarazzante, e allora a questo punto non parlerò di quello che facciamo noi, compagnia Pupi di Stac, ma parlerò di miei illustri predecessori.

Molti quando incontrano la compagnia Pupi di Stac dicono che vuol dire pupi di Stac? Ecco, mi limito a spiegare il nome della compagnia. Allora nel 1946 Carlo Staccioli era un ferroviere senese che aveva la passione del teatro, aveva recitato in compagnie comiche ai tempi dell'Università. Un tempo era molto vivo il teatro studentesco. Subito dopo la guerra coronò da sua passione per il teatro dedicandosi ai burattini e fino al 1950 porto avanti un teatro dei burattini abbastanza anonimo, se vogliamo, proprio perché non aveva una tradizione burattinesca alla quale riferirsi.

È chiaro che un burattinaio napoletano o del nord, comunque artisti che hanno una grande patrimonio storico di riferimento, al di là della propria inventiva e del proprio estro di attore, hanno una grande tradizione a cui riferirsi. Stac,così si faceva chiamare Staccioli, non aveva una tradizione di riferimento e faceva spettacoli di burattini basati sull'improvvisazione, su dei clichés abbastanza universali e sul personaggio di Stenterello che è la cosiddetta maschera di Firenze; in realtà è un carattere perché è nato alla fine del ‘700 non è difatti mascherato e lui stesso dice di essere un carattere. Aveva il codino perché l'avevano proibito in Francia, un bastian contrario, un personaggio abbastanza atipico, appunto, non una maschera della Commedia dell'Arte e Stac riprendeva questo Stenterello mettendolo come protagonista di tutte le storie e facendogli fare diversi mestieri e diversi ruoli. Nel ‘51 o ‘ 52 ebbe l'idea di mettere le gambe ai suoi burattini e cominciò a chiamarli pupi.

Io so che in qualche convegno qualcuno ha detto che la tradizione toscana dei burattini è di questi pupi con le gambe, non è vero niente! Se l'è inventata il signor Carlo Staccioli negli anni ‘50.

Io non so il perché di questa invenzione, forse pensava a Pinocchio, che è una marionetta senza fili, un burattino con le gambe, probabilmente era spinto dall'esigenza di trovare uno stile personale, di trovare un qualcosa che lo contraddistinguesse, un qualcosa di tipico nel suo stile teatrale.

Nel 1958 cominciò a lavorare con Laura Poli, che era mia mamma, e quando lui morì nel 1971, troppo giovane, aveva l'età che ho io ora, mia madre cambiò completamente la drammaturgia ed il repertorio della compagnia perché non era più in grado lei di interpretare questi personaggi maschili ( Staccioli interpretava spesso duelli e storie di cappa e spada, tornei con i cavalli, un mondo cavalleresco ecc. ) e si rifece alla tradizione della fiaba toscana.

Questa è veramente una tradizione forte ed importante. Quindi cosa fece mia madre: laddove esisteva una tradizione letteraria popolare, fiabesca, raccolta in opere compilate alla fine dell'800 dei vari Briani, Nerucci, De Gubernatis, il Pitrè, che toscano non era ma ha una raccolta meravigliosa da tutti questi testi che hanno una lingua meravigliosa, e storie bellissime da questo ha mutuato una tradizione che nei burattini toscani non è mai esistita.

Quando, indegnamente, ho dovuto raccogliere la sua eredità io non ho fatto che quello che aveva fatto lei cioè   cercare di mantenere la sua linea e di portare avanti il suo discorso, insomma, io non direi nient'altro perché il programma è già molto nutrito, vi ringrazio della vostra presenza e dico ancora solo una piccola cosa: da un anno abbiamo aperto un piccolo teatro nel centro di Firenze, un piccolo teatro che ha una programmazione tutto l'anno, ovviamente di teatro di figura, burattini, sconfiniamo talvolta nella narrazione con oggett; il luogo è molto piccolo, lo spazio piccolo; è un luogo che è stato pensato e voluto per tanti anni e finalmente realizzato, che spero possa accogliere oggi iniziative di questo tipo come i bravissimi amici Marianna e Claudio, di Specchi Sonori, stanno facendo da molto tempo e noi speriamo ecco di entrare in questo giro e di poter ospitare uno manifestazione bella come questa, c'è poi l'UNIMA che ci aiuterà in quest'intento. Grazie.

Relazione di Marianna de Leoni – Associazione specchi Sonori - Carrara

Un’esperienza di ricerca ed integrazione dei linguaggi, l’occasione del doppio significato della marionetta

Doppio, duplice, ambivalente, ambiguo, ma anche valore considerato due volte in sé.

La parola “doppio” ha doppio significato

Il Teatro di figura ci rimanda al significato del doppio. Marionette mosse da fili, eleganti creature, comunque danzanti, o burattini, tradizionalmente parenti del teatro popolare, portati in piazza, tra giocolieri e venditori di mercato, sempre affamati, arguti, vivaci; grandi teste, piccole braccia che si sporgono dalla loro baracca, mossi dal burattinaio, nascosto, che fa il suo spettacolo anche da solo con semplici mezzi.

Le figure si animano, e non solo si muovono, vivono in scena, nel loro spazio scenico della baracca dei burattini o del teatrino delle marionette, o nel loro spazio di ombre.

Figure, esseri finti, costruiti artigianalmente, scolpiti o plasmati in cartapesta, vestiti di piccoli costumi, si muovono in un proprio spazio. Figure finte, fingono teatralmente, agiscono in quel doppio della vita e del mondo che è il Teatro.

Figure finte fingono… e la doppia negazione reifica quello che stanno facendo, non fingono di essere i personaggi:esse lo sono; non fingono di volare, possono volare, né di sparire, riapparire, rompersi, piegarsi.. il loro corpo finto è vero in un mondo fantastico che diviene reale, che ci assale,straordinario con una potenza festosa.

Il Teatro è doppio del mondo, il loro teatro è un mondo che è il doppio del teatro.

Artaud nel suo celebre testo, il Teatro e il suo doppio, parlava di grandi manichini e di figure che si muovessero nello spazio, per un teatro nuovo e liberato in cui la parola potesse avere la stessa “importanza che ha nei sogni….”

Il doppio delle figure si moltiplica, allora, come in un gioco di specchi contrapposti: il doppio versante di questa piccola figura, come i due versanti di una montagna; da una parte l’oggetto che prende vita, che si anima, dall’altra la vita che si nega nell’oggetto, nel simulacro della vita fatto di legno, di cartapesta, di umile materiale. Memoria di qualcosa di semplicemente perturbante.

Chiunque prenda un burattino per la prima volta, lo indossa sulla mano, poi lo guarda girandolo verso di sé e lo muove, dimenticando per qualche istante che è la propria mano a muoversi.

Lo scambio”magico” tra la mano umana ed il burattino avviene sempre ed avviene subito, appena si stabilisce, infilando il burattino sulla mano, la più semplice relazione tra la persona ed il burattino.

Anche oggi, epoca della nuova tecnologia e di una capacità enorme di riproduzione dell’immagine, alla portata di chiunque acceda ad un programma informatico, questa magia, così semplice e densa, vicina al gioco infantile, rapisce ancora chiunque.

Chiunque si meraviglia per un attimo, sorride, guardando la mano che non è più solo una mano o prova sentimento vedendo la marionetta a fili mossa dall’animatore.

Anche quando scorge l’animatore, quando vede i fili tendersi ed allentarsi, quella corrispondenza viva del movimento… lo affascina e forse lo inquieta: la potenza di questa figura è suscitare fascino ed inquietudine insieme.

Nel gioco teatrale, intendendo per Teatro la pura e semplice situazione di qualcuno che guarda e qualcuno che agisce, vi è sempre uno spazio agito ma vi è sempre la potenza di un altrove…

Chiamiamo questo altrove uno spazio poetico.

E’ quello che nella rappresentazione teatrale viene indicato come spazio esterno, non visto: i luoghi da cui giungono i personaggi, muovendosi ed entrando sullo spazio scenico; i luoghi ove andranno, in un tempo rappresentato, l’immaginazione dell’altrove che intravediamo, o solo immaginiamo, a sinistra e a destra della scena, che possiamo scorgere in una fuga prospettica, effettivamente visibile, ma in cui l’attore non agisce.

La scena può presentarsi chiusa, bloccata, conclusa nella visione che presenta, oppure aperta, enigmatica, tesa verso una continuità nello spazio, oltre a ciò che vediamo.

La figura, la marionetta il burattino doppiano anche questo spazio poetico del teatro, creando un altrove della stessa creatura vivente: non sono veri, essi sono fantastici, colorati, hanno corpo diverso dal corpo umano, hanno fattezze anche impossibili, eppure agiscono in un proprio mondo che spiamo e che, col trascorrere del tempo della rappresentazione, ci appare un mondo illusorio ma vero, in cui potremmo entrare.

 

Finita la rappresentazione delle marionette, ci stupiremo a toccarle, parendoci esse improvvisamene più piccole di come le avevamo credute!

La magia vitalistica che ce le rendeva vive… ora si annulla, con le marionette appese ed inerti, e nulla ci rappresenta più fortemente l’idea della morte, di una vita smarrita.

Quel gioco infantile che abbiamo fatto tutti, con una bambola, con un pupazzo, con un semplice oggetto, assegnandogli un nome, assegnandogli la verità di atti e suoni fatti con la bocca quando lo muovevamo… quel gioco infantile si riproduce e ce lo perdoniamo, consentendo a noi stessi di essere anche bambini.

Questa è la potenza “infantile” del teatro di Figura, non il suo essere adatto a bambini, ma quello di riscuoterci dentro miti infantili.

Allora possiamo chiamare mitologica la nostra stessa fame di magia: cose che appaiono e che si animano, oggetti inanimati che vivono.

La figura è oggetto che si anima e che assume una funzione poetica, dice per noi e rappresenta per noi.

Questa sua natura la rende inquietante e affascinante, desiderabile e minacciosa, vicina alle condizioni rituali dello sdoppiamento della persona di cui è simulacro la maschera.

I doppi versanti sono anche questi, ed agiscono simultaneamente.

Nel rito magico-religioso, come nel Teatro che da esso discende, la maschera ci nasconde e ci rivela, ci adduce potenza e ci sottrae qualcosa; l’identità si duplica e nello tempo si perde.

E’ uno straniamento che raggiungiamo che ci avvicina ed allontana da noi stessi..mentre in questo allontanamento ci incontriamo veramente.

Le figure fanno questo, anche facendoci ridere, intenerire, anche festosamente ironiche.. ci propongono una dimenticanza del mondo reale e ci ripropongono con estrema energia la sintesi essenziale del mondo reale..così come l’avremmo dimenticato.

La potenza del mito agisce su di noi se non lo vediamo, se non lo apriamo per scorgerne la struttura… il gioco dell’illusionista è la stessa pratica: se il trucco illusorio si rivela, tutto si svuota all’improvviso, l’incanto finisce.

E molti miti ammoniscono di non guardare: di non guardare Eros destandosi dal sogno, di non voltarsi a guardare Euridice, o Sodoma che cade distrutta, di non guardare negli occhi Medusa.

Con le figure, avviene un incantesimo ancora più potente del gioco d’illusione: vediamo il movimento elegante delle marionette, quello festoso dei burattini; gli animatori sono nascosti, sotto nella baracca, o sopra o dietro ad un fondale…se l’animatore si rivela, entrando in scena, e dichiara che sta muovendo fili, o che presta la mano al burattino, noi spettatori restiamo per un attimo spiazzati…poi torniamo a credere: quelle figure sono vere, piene di vita propria. L’incantesimo non si rompe del tutto.

La figura, mossa dall’animatore è più potente di lui, attrae lo sguardo degli spettatori più della figura umana… forte di tutto il condensato magico che stiamo ricordando.

Durante un lontano festival a Roma, il maestro Brunello Leone, celebre artista Direttore dell’Istituto delle Guarattelle di Napoli, dimostrava che lo stesso burattino Pulcinella, mosso da lui e poi dal suo allievo di allora, Gaspare Nasuto, prendeva due vite e due anime diverse. Si aveva l’impressione tra il pubblico addirittura che le fattezze del Pulcinella cambiassero, stante lo stesso naso adunco della maschera nera, lo stesso piccolo costume bianco con cappuccio, testa di legno, non mobile… eppure sembrava trovare un’espressione con Bruno, un’altra con Gaspare…

Nel lavoro di ricerca fatto in questi anni a Carrara con la nostra Associazione Specchi Sonori , abbiamo voluto approfondire queste osservazioni durante le nostre prove per gli spettacoli che sono andati in scena qui agli Animosi, abbiamo redatto osservazioni, col gruppo di lavoro: è accaduto che gli animatori con la propria marionetta, durante le prove, nascosti dietro ad un fondale, rivelassero dentro la propria marionetta inavvertitamente tristezza, stanchezza, nervosismo o esuberanza e serenità.

Sì: la figura si anima, nel senso che un poco “prende l’anima” di chi la sta muovendo….

L’oggetto- figura- diventa sempre oggetto meraviglioso.

Il gioco antico del Teatro di Figura, con al sua storia, con anime di popoli diversi e linguaggi e forme e tradizioni… che altri oggi vi racconteranno meglio di me, si è potenziato enormemente all’inizio del ‘900; artisti e avanguardie dell’Arte vi si sono dedicati con passione, scrivendo testi e costruendo figure, come hanno fatto i futuristi, e la Bauhaus di Weimar, mettendo in scena spettacoli, o cercandone la metafora nel testo letterario.

La figura proponeva con questa sua doppia natura inquietante, grottesca, surreale, infiniti rimandi alla ricerca dell’Arte stessa: della musica, come dell’Arte plastica, come della pittura e per la ricerca di una nuova arte dell’attore.

Il burattino e la marionetta proponevano agli artisti occasioni creative potenti.

Da una parte conducevano con loro il tema dell’oggetto “straniato e straniante” dall’altro rispondevano ad una ricerca che voleva oltrepassare i limiti mimetici della rappresentazione del corpo umano.

Oggetti portatori di significati ,capaci di mutare incondizionatamente, di trasformare materiali semplici, di deformare l’anatomia, di sintetizzare in pochi segni un condensato di significati, con un dinamismo eccezionale o con una danza attorno ad un baricentro più alto che per l’uomo, come ci fa osservare Von Kleist nel suo saggio sulla marionetta.

Questa condizione dell’oggetto comune che diventa meraviglioso è stata ricercata da molte delle avanguardie storiche dell’Arte ed assegnata a cose volutamente banali, comuni, presenti nella vita quotidiana…forme di pane e manichini da sarta, ruote di bicicletta, o piuttosto una pala Il procedimento con cui l’Arte figurativa assegnava nuovi valori alle cose aveva la finalità di proporre la potenza di cui l’operazione artistica poteva caricare gli oggetti e le forme; l’Arte non si poneva più l’obiettivo di simulare il vero o di riprodurlo, ma di ricrearlo, di rivelarne le profondità, depositaria di un proprio linguaggio e di una propria capacità evocativa.

Ogni oggetto ed ogni forma osservati, esplorati, considerati liberi dalla propria funzionalità, nella pura essenza del proprio aspetto formale, delle qualità tattili, visive e perfino olfattive che conduce, è oggetto di un’esperienza percettiva e diventa oggetto di un’esperienza artistica.

Liberare completamente l’oggetto dalla sua funzione, perderne la memoria è un’esperienza percettiva possibile nel dormiveglia o nel sonno, nella tranche, nella follia, ma è anche un esercizio enigmatico.

Esercizio enigmatico è un termine che utilizzo per intendere quel particolare gioco che compie l’artista nel riproporre un oggetto (una forma) ma come enigma e mistero,e di enigmi e di mistero l’uomo moderno ha bisogno e paura.

Giorgio De Chirico, nel 1912 parla del suo dipinto “Enigma di un pomeriggio di autunno” (considerato il primo del suo periodo metafisico) e dice “….Per avere idee originali, straordinarie e forse immortali, non si deve fare altro che isolarsi dal mondo per pochi momenti, in modo così compiuto che gli avvenimenti più comuni sembrino nuovi o insoliti e rivelino in tal modo la loro vera essenza….”

E’ la citazione di un brano di Shopenauer: “Parerga e Paralipomena” in cui non c’è l’accezione miracolosa che De Chirico vi attribuì; il filosofo descrive il genio come capacità mentale di uscire dagli schemi delle cose e riconsiderarle nella loro vera essenza, come se fossero sconosciute. Lo stato mentale conoscitivo descritto è più vicino allo stupore infantile che all’enigma.

L’oggetto metafisico ed enigmatico è anche di Alberto Savinio che parla di “gioco dei mobili” e chiama la Grecia”… il paese degli oggetti, la terra del mito”:

“….Da tempo guardavo gli oggetti del mobilio domestico che essendo quelli con i quali siamo più a contatto, ai quali sveliamo gli atti ed i gesti più intimi della nostra esistenza….. in questi momenti tutti gli oggetti che fossero mutilati delle proprie funzioni, oggetti che nella loro fisicità esprimessero una sottile inquietudine… un senso di ambiguità e di impotenza di fronte al loro essere fisico, inorganico ed ottuso. (Mobili nella valle)

Sempre nei primi anni del ‘900, contemporaneamente alla nascita della Metafisica nella pittura, Giovanni Papini coniuga lo stesso termine nell’introduzione al saggio “Il tragico quotidiano” (1906): ”…. La nostra meraviglia e la nostra paura derivano dalla rarità delle cose che le producono e niente ci può far ricredere che alcune cose abituali non contengano virtualmente una maggiore meravigliosità…

Viviamo in mezzo a cose che non ci sembrano miracoli unicamente perché si ripetono troppo noi siamo abituati a quest’esistenza e a questo mondo, non ne sappiamo più vedere le ombre, gli abissi, gli enigmi e le tragedie Vedere il mondo comune in modo non comune, ecco il vero segno della fantasia...”

Il rapporto di re-invenzione con un oggetto lo troviamo nel futurismo, nel surrealismo, come in dada, …. con approcci diversi, che possiamo intendere diversamente, ma il mondo moderno e contemporaneo non ha più potuto prescindere dal problema artistico della rappresentazione, mutato in ri-creazione. In ogni caso le oscillazioni possibili tra rinvenire l’essenza formale delle cose o dimenticarla, praticare parallelamente dei linguaggi spiazzanti (ce n’est pas une pipe) o riproporre un valore materico dell’oggetto… in questa sottile ma sostanziale differenza tra un pensiero magico e pensiero mitico.

La figura, oggetto vivente, doppia essenza di vita e non vita propone col suo semplice aspetto di gioco un’ enigmatica risposta.

La figura è contemporaneamente oggetto ed “attante” (ovvero attore di un significato), il manichino, l’automa e tutta una serie di rimandi tra corpo ed oggetto si affacciano nell’Arte del ‘900, rimbalzano in un teatro di Figura sperimentale delle avanguardie, popolano le poetiche artistiche di numerose sponde. Viceversa, la drammaturgia del primo ‘900 guarda ad oggetti che ispirano significati, che spiazzano, che si occupano degli umani; il futurista Marinetti compone “drammi per oggetti” (Il teatrino dell’amore – dramma per oggetti, in cui una credenza ed un buffet parlano insieme con un marito, una moglie, una bambina), così come Savinio anima mobili e madri-poltrone, Rosso di San Secondo immagina esseri umani che si muovono come marionette e vestiti che ballano come umani. … c’è insomma una sorta di scambio tra la fisicità e plasticità dell’oggetto e la fisicità umana, uno scambio che si fa metafora della vita stessa.

In questo scambio possibile, può accadere che i manichini siano muse inquietanti, simulacri di miti perduti o può accadere che il movimento a scatti dell’automa o della marionetta di legno simboleggi un destino manovrato della nostra vita umana.

In ognuno dei casi, assistiamo ad una dilatazione stessa del senso e della materia del corpo umano, alla ricerca di una sua metamorfosi, in qualcos’altro.

“ I luoghi del corpo. Interno: borghese o proletario che fosse, rimaneva comunque il luogo rassicurante di un’ambientazione al contempo storica e psicologica…. Dopo Van Gogh ed Ensor non più. Stanza dei giochi o stanza della tortura, l’interno diviene il luogo magico della metamorfosi delle cose e delle persone. Annunciazione e apparizioni,   battaglie e interrogatori, ciò che accade dentro le mura è sempre l’irruzione del perturbante all’interno del quotidiano, e non più la sua descrizione.

”….   (cit: W.Guadagnini Le metamorfosi del corpo – Mazzotta editore)

Il perturbante viene definiti da Freud in un saggio del 1919, proprio a proposito dell’Arte, non come elemento angoscioso e orrorifico, ma come presentazione sincrona di “angoscioso” e di familiare: ciò che è solitamente familiare, se si presenta spiazzante scatena il perturbante.

La radice tedesca Heim significa casa. Il termine tedesco Unhieimlich, perturbante, è anche legato all’idea della magia, del sotterraneo.

E’ perturbante dunque l’affiorare della magia e del significato sotterraneo in ciò che ci è familiare e vicino; è perturbante soprattutto il confine, il doppio, tra il familiare e l’ignoto, l’attimo della possibile trasformazione dell’uno nell’altro.

In un saggio “Bambola” Rilke parla di questo attraverso l’immagine della bambola: “Un poeta potrebbe capitare sotto la signoria di una marionetta, ché la marionetta non ha se non fantasia, la bambola ne è affatto sprovvista ed è sicuramente tanto inferiore a una cosa, quanto una marionetta lo è superiore…la bambola è nell’area di gioco della nostra infanzia ciò che ci fa penetrare nell’area dell’ignoto, è un oggetto reale, ma nello stesso tempo è un oggetto che “sta per qualcosa altro”.

Ogni oggetto esiste e potenzialmente può venir distrutto, dimenticato, perduto, si carica di un’affettività quando ci è familiare,ci conduce ricordi di chi lo ha costruito, posseduto, usato,ma può venire distrutto, ceduto, rubato e con esso questa anima che lo aveva riempito.

L’oggetto bambola, simulacro di un essere vivente, reca in sé l’idea del destino di morte di ogni essere che può essere distrutto, perduto, dimenticato.

La marionetta però stabilisce con chi la muove una relazione tale da smettere di essere oggetto: nello scambio che si attua nel movimento l’uomo e la marionetta vivono entrambi, eppure anche la marionetta è simulacro dell’umano e può venire distrutta, perduta, dimenticata.

Se l’opera d’arte è anche metafora di un sogno umano di superare la morte, il doppio , inquietante e vitalistico condotto dalle figure che si animeranno è una metafora di questo sogno, così vicino alla scultura che plasma, all’idea della forma sorgente dalle mani dell’artista, forma addirittura alchemica, se potrà azionarsi e vivere.  

Vi è poi un’altra corrispondenza tra il teatro di figura e quell’irruzione del perturbante descritta dal brano di De Chirico e che attraversa la cultura moderna: ed è proprio lo stupore della riscoperta della cosa essenziale, quotidiana, che aveva perduto per noi la meravigliosità…

Il burattino ha pochi movimenti a disposizione, la testa con il volto immobile, le braccia sono le nostre corte dita; la marionetta ha a disposizione più articolazione di movimenti, tutto è comunque piccolo… ma la loro meraviglia sta semplicemente nel proporsi vivi, in piccole cose, come se…. fossero umani. Emerge un’essenza dimenticata, quella di essere vivi, di muoversi, cantare, parlare di cibo e di fame, di amore e di rabbia, che tutto ciò sia così semplice. Quelle piccole creature davanti a noi lo fanno e noi ci rammentiamo molto di noi stessi e della nostra umanità.

Vi è un meccanismo strano della memoria umana, che tutti abbiamo sperimentato: la memoria della nostra vita raramente muove per grandi assunti, per solenni momenti, per concatenazione esatta di fatti. Essa muove per frammenti immaginari: le cose vissute riemergono, talvolta improvvise, attraverso immagini e piccoli dettagli, che giganteschi si riaffacciano, frammenti e dettagli che ci smuovono all’istante l’oceano intero del ricordo, come Proust fa fare al sapore della piccola madelaine, di un pasticcino.

La memoria è un meccanismo visionario.

Il mondo essenziale delle marionette e dei burattini, un mondo intero fatto di piccole cose, è uno specchio della memoria della nostra vita, esatta riproduzione di questo nostro ricordo… specchio, ancora una volta come doppio.

Ricordo che ne parlai con Josev Svoboda, che ho avuto l’onore di intervistare in Italia, a proposito del suo scenario elettronico per Luigi Nono, in cui frazionava dettagli piccoli in schermi giustapposti, con un mosaico di immagini che raccontavano proprio il meccanismo in atto della memoria.

Il grande artista burattinaio Obraszov che nella Russia dalla rivoluzione agli anni ‘40 crea un’arte unica di questo linguaggio, scrive ne Il mestiere di burattinaio a proposito di questo meccanismo emotivo:

“Ogni persona ha un diario della memoria non scritto. Questo diario è composto di migliaia di pagine….imbrogliate e talvolta illeggibili. Illeggibili sono spesso le date, ed i nomi, i nomi delle città e delle strade.. La memoria è disattenta ai fatti. In compenso trattiene decenni interi, immagini isolate delle nostre ore… Essa le ha notate nei loro colori, negli odori” . Obrazsov dice agli artisti:

“Non cambiatele mai queste pagine, meglio non potreste inventare….”

I burattini, le marionette, le piccole figure, azionano questa memoria. Le cose più semplici, gli atti compiuti nelle loro storie teatrali, diventano meravigliose, per essere fatte da piccoli meccanismi, posti a cavallo tra vita ed illusione.

Il burattino prende in mano un piccolo piatto… noi tutti quando mangiavo prendiamo in mano un piatto, ci siamo soltanto dimenticati che anche questo semplicissimo gesto può essere meraviglioso…                            

Marianna de Leoni

 

Maurizio Corniani

Grazie-c'è qualcuno che ci sta rubando il mestiere-(rivolto al burattino moderatore ) buongiorno a tutti.

Grazie per essere invitato qui ufficialmente: è la prima volta che mi trovo invitato ufficialmente in un convegno a rappresentare una compagnia storica di burattinaio e mi fa molto piacere, è come valicare una montagna, si è sempre in salita, si sale, ad un certo punto ….il valico e si scende.

Prima, chiacchierando con Marianna de Leoni, che ringrazio perché immagino, anzi so, cosa significa organizzare un convegno, piuttosto che una rassegna, piuttosto che qualsiasi evento legato al mondo dei burattini...

Comincio parlando di mio padre che potrei chiamare " il burattinaio ombra ", ombra perché è sempre rimasto così... nei sotterranei del mondo dei burattini. Lui è sempre stato un burattinaio di " territorio ", di provincia perché non aveva modo di fare alcuno spostamento, non ha avuto la patente finché non ha compiuto 54 anni, era senza patente e girava inizialmente con una bicicletta poi ha girato con il mosquito, non so se qualcuno se lo ricorda: un motorino che aveva un rullo che quando pioveva girava a vuoto perché non faceva aderenza sulla gomma e praticamente andava a pedale, in sostanza una bicicletta " con un fumo dietro, con un fumo azzurro dietro, "

Poi ha acquistato un motocarro, centinato, con la centina dietro, sul quale caricava tutta la sua roba.

Si serviva inizialmente di questi mezzi per portare in giro da sua baracca che erano tre legni raffazzonati, con una valigia dietro il tema contenuta nella valigia e i quattro o cinque burattini, che erano più che sufficienti.

Man mano che i mezzi erano aumentati ha cominciato a mettere le lampadine con le luci colorate, quelle bianche, ha cominciato a mettere le quinte, aveva un po' più di attrezzatura, magari un piccolo amplificatore col microfono tutto sputacchiato, le solite cose che servono per fare burattini.

Dal momento che aveva il suo motocarrino, partiva da casa e tornava... stracarico di uova.

Quando lo racconto in giro la gente mi dice: "Perché le uova? " Perché una volta c'era una specie di merce di scambio, non una specie, era proprio un baratto: io ti offro il mio spettacolo tu mi dai qualcosa in cambio.

Siccome ha cominciato durante la seconda guerra mondiale, nei sotterranei e rifugi anti aerei, già lì la partenza non era delle migliori per cercare di far ridere la gente quando sopra c'erano i bombardamenti!Già era una conquista. Lui però aveva coraggio, aveva una gran voglia, aveva sedici anni e tutta la vita davanti con una gran voglia di fare.

Finita la seconda guerra mondiale c'è stata la ricostruzione, perché tutto era distrutto e perciò ….soldi zero. Allora cosa ha fatto? Ha detto: " Qualcosa da mangiare troverò "Qualche gallina raramente, ma tante uova. Girava col suo spettacolo, andava in campagna e chiedeva " cinque lire o tre uova ", però erano sempre tre uova che arrivavano, e tre, e sei , e nove , e dodici.. arrivava a casa con centinaia di uova.

Lui è cresciuto a uova, mio padre avevo un menu molto particolare nella sua cucina: cominciava la mattina con le uova sbattute, a mezzogiorno erano tagliatelle all’uovo, frittata e il bussolan , el chissèl lo chiamiamo in dialetto, io sono di Mantova, che sarebbe praticamente una torta fatta con le uova. La sera si cambiava: minestrina leggera con uova, praticamente le uova sbattute nel brodo.C'era poi.... c'era poi qualche volta qualche fettina di carne, ma impanata.

Questo era il menù della cucina di mio padre, una cucina modesta, la famiglia di mio padre è sempre stata una famiglia modesta; grazie a mia madre che ha lavorato sempre perché mio padre si è ostinato, per fortuna, per fortuna-adesso posso dire per fortuna-a fare il burattinaio. Lui ha fatto il burattinaio e nient'altro, ha fatto per oltre sessant'anni il burattinaio e mia madre è andata a lavorare: è andata a servizio, a fare pulizie nelle case delle persone perché questo ha permesso di far crescere due figli in questa famiglia... se fosse stato solo per mio padre... e allora... e allora il fegato alla fine ne ha risentito.

Anch'io ho i miei residui di tutto questo, nel senso che io soffro della sindrome di Gilbert, cioè della produzione eccessiva di bilirubina; il fegato sollecitato eccessivamente quando ero giovane mi produce molta più bilirubina di quanto sia necessario, divento giallo!

Non è una malattia grave però… statemi pur vicini che non succede niente!

Divento giallo, sembrò abbronzato, ma in effetti è la bilirubina in circolo.

Mi piace raccontare della mia famiglia, mi piace raccontare le amicizie che ha avuto mio padre. Due sopratutto: mio papà ha avuto amicizie importanti con un burattinaio che posso nominare tranquillamente: ha stretto amicizia con Ciro Bertone, un burattinaio bolognese che io conosciuto molto anziano. Quando l'ho conosciuto aveva quasi ottant'anni e soffriva di cataratta, abitava nel centro di Bologna . Ha conosciuto poi Nino Presini, un altro burattinaio di Bologna, ma soprattutto ha stretto una grande amicizia con Giordano Ferrari, per un motivo molto semplice.

Giordano Ferrari era stato operato alla gola, aveva avuto, mi pare, un male alla gola ed era stato operato alle corde vocali.

Era l'insegnante, presso l'ospedale di Mantova, di tutti quelli che erano stati operati alla gola: insegnava loro come far vibrare le corde vocali, o meglio una membrana dentro alla gola, farla vibrare ed emettere suoni per riuscire a parlare e farsi capire.

Tutti i mercoledì all'una lui arrivava a casa nostra a bere il caffè. Poi andava lavorare.

Avevo un macchinino a tre ruote anche lui, ma tipo sulki.

Avete presente che cos'è, no? Forse io sono un po' anzianotto, forse alcuni più giovani non sanno cosa sia il sulki: è quella specie di gabbiotto con le ruote, si, proprio una gabbia per conigli con le ruote, un 250 cc che andava per strada senza patente, perché anche lui non aveva la patente!

Conosci oggi, conosci domani... ha dato un sacco di consigli a mio padre su come cercare di modificare il suo modo di fare teatro.

Perché dovete sapere che mio padre, ma prendete le cose che dico come buone, anche se sembrano cattive, mio padre appunto era, io dico sempre: "sadico-moralista ". Io ricordo sempre, lo racconto un po' a tutti, come faceva la favola di cappuccetto Rosso, una cosa che mi colpiva, che mi faceva star male al posto dei bambini. Mi sono sempre chiesto come si fa a fare per dei bambini una scena così " cruenta ", quando il cacciatore tagliava la pancia al lupo.

Mio padre allora diceva: " adesso ci penso io, dialetto, ............................ (e Maurizio Corniani ripete al microfono un terribile, prolungato rumore )"

Io rimanevo allibito. I bambini della scuola materna! Per fortuna che una volta erano educati in modo diverso, soprattutto avevano un senso della vita più forte, perché... se i bambini di oggi subissero questa... violenza anche solo a livello verbale, di un rumore di questo genere, le maestre... le prenderebbero a sberle!

Eppure oltre a questo sadismo, tornando indietro, vi sto parlando degli anni ‘70-‘80, vien anche il ricordo di questo spettacolo " forte ", uno spettacolo che incideva, e poi serviva anche a tenerli buoni: "Guarda che ti faccio mangiare da lupo!" - Mio padre faceva un lupo terribile! -

Oggigiorno si cerca di fare un dscorso contrario, si cerca di mediare un po' le cose, però è stato difficile... e arrivo ora al punto centrale del mio intervento " Da padre in figlio, alla tradizione continua ".

A volte è più facile essere figlio di nessuno che figlio di un burattinaio vecchio, anziano perché... non perché io mi voglia dissociare dall'essere figlio di burattinaio, ma perché le maestre avevano un ricordo di mio padre e dicevano: " se il figlio assomiglia al padre...! Lasciamo stare! “

Il problema è che non sono ancora tutti andati in pensione e perciò io mi ritrovo d'avere una difficoltà incredibile

a entrare nelle scuole, veramente... non sto dicendo una sciocchezza! Ho dovuto studiare tutto un altro tipo di marketing - ride - posso usare la parola marketing? ( si avremmo fatto marketing, impiego la parola marketing, anche nel nostro teatro di burattini esiste una strategia di vendita dello spettacolo ).

Poi c'è sempre quest'altro pensiero che i burattini sono solo per i bambini.

Diciamo che è stata una necessità, in un periodo storico molto preciso, quando prima con l'avvento della televisione, che ha portato tutta la gente a chiudersi nei bar o nelle case, lasciando il teatro dei burattini per strada senza gente; poi il teatro ragazzi: tutta quella gente che uscendo dal teatro, diciamo classico, cercando vie di fuga da questo modo di fare teatro che non riconoscevano più, sono andati a fare teatro ragazzi, creando barriere ed osteggiando proprio in modo molto forte il teatro di burattini perché era considerato superato, da cancellare, come avviene in quei periodi in cui le cose vecchie devono essere buttate da una parte, buttate e poi riprese.

Per fortuna poche, ma significative, compagnie di burattini hanno continuato anche in questi anni difficili; per fortuna i burattini sono sopravvissuti alle guerre civili che ci sono state all'interno della nostra società.

Vorrei solo ricordarvi senza allungare troppo " il brodo "perché ce ne sono tanti di cose da raccontare, voglio soprattutto dirvi questo: essere figli d'arte…difficilmente si porta una coscienza al figlio. Perché? Perché di solito il genitore non insegna mai al figlio,perché è geloso .

Un esempio per tutti: mio padre quando io ho cominciato fare il burattinaio solista... ma devo aprire un'altra piccola parentesi. Io a dicotto anni avevo deciso di fare il burattinaio, ho interrotto gli studi ed ho detto: " Voglio fare il burattinaio " allora mio padre mi disse:” Va bene, andiamo insieme”. Dopo un anno mio padre mi dice: “No non si può fare perché " non ci stiamo dentro(alla baracca) " Mi da fare altro.

Così per ben venticinque anni io continuato a fare " altro ", che non significa che non facessi burattini o che non aiutassi gli spettacoli dei burattini. Mio padre mi ha detto cioè, per venticinque anni “Tu non viene più, ma non significa che tu non mi aiuti più”. Così c'è stato un inseguimento da parte mia proprio nel dire: " Arriverò un giorno a fare il burattinaio! " Finché dopo venticinque anni ho detto: " Basta! Mi basta”. Nel '91 è successa una cosa stranissima: mio padre usava la mia bicicletta, la mia, non lo dico per essere possessivo, ma perché la mia bicicletta aveva il manubrio strettissimo, era di quelle da corsa. Su questa aveva poggiato, sul manubrio, due borsine della spesa, e non so come non so perché, una bustina è andata nei raggi della ruota della bicicletta, mio padre... è caduto.

È caduto, ha messo le mani in terra, si è fratturato i due polsi.

Un burattinaio che si frattura i polsi, io penso che sia la cosa peggiore che possa succedere! Uscendo dall'ospedale, badate bene: l'hanno ingessato così... da burattinaio proprio, e soprattutto quando è uscito dall'ospedale era come se si fosse arreso , con le mani in alto era come se si fosse arreso: " E adesso cosa faccio? " " E adesso cosa facciamo? " Due giorni dopo avevamo spettacolo. Allora mio padre (dato che io facevo l'aiutante di baracca che è colui che senza parlare muove i burattini nella baracca) mi dice: " Facciamo così: tu muovi, io parlo".

E di risposta io: ( gesto del no con la mano )... se non avessi colto quell'occasione sarei ancora fare il servo di baracca. " No, io muovo ed io faccio le voci " e si è dovuto arrendere alla mia volontà, “Ma devi guadagnartelo – ha detto - detto: " Va bene, facciamo così: io ti do cinque burattini e con quelli tu fai tutto. Ed i per vent'anni ho usato solo cinque burattini di mio padre e gli altri li ho dovuti costruire da solo.

Tutti i burattini che vedete qui nell'armadio, che sono poi un esempio della mostra itinerante che stiamo portando in giro e che si chiama " i burattini nell'armadio " sono i burattini della sua collezione, tutti gli altri burattini li ho avuti, ne sono venuto in possesso un anno fa… mio padre mio padre è morto il 14 gennaio di quest'anno.

Per dirvi soltanto la gelosia, l'attaccamento e i... " Questo il mio! Tu sei mio figlio e devi guadagnartelo! "... alla fine ci sono riuscito.

 

                               ROBERTO SALSANO

             Marionette e marionette metaforiche nel teatro

                               del primoNovecento *

La marionetta ha una propria area di pertinenza scenica in base alla quale rappresenta dati caratterizzanti nell’ambito d’una specifica drammaturgia. Ma la sua distintività sta nell’annullamento delle distinzioni. Basta collegare la quintessenza figurativa e drammatica che la informa ad un profilo umano del resto inseparabile da un rapporto comparativo con la sua morfologia teatrale, per mettere in crisi ogni angusta letteralità semantica della categoria stessa che la individui e la designi in modo unilaterale, a favore di transvalutazioni nel senso metaforico ed allegorico, entrambi intrinseci a una forma-figura che dia anima e senso al meccanismo dello spettacolo.

I procedimenti per cui la marionetta attinge il simbolo o l’allegoria sono qualcosa di particolare e complesso nell’ambito di una semiotica che tocca aspetti teatrali, letterari ma anche psicologici e filosofici. Un equivalente ermeneutico e retorico ben plausibile del senso e ruolo della marionetta è certo l’allegoria, prosecuzione della metafora e insieme scarto da essa in quanto poggiante su una trama concettuale da enucleare. Un logos interpretativo è sotteso nella più o meno implicita comparazione differenziale con il modello dello stereotipo naturalistico dell’uomo, rinvenendosi un segno di perfezione divina nel filo che dirige dall’alto o, al contrario, un indizio di limite nella revoca del libero arbitrio, nell’impaccio di un artificio e di una parodia. D’altra parte i caratteri straniati sviluppabili dalla marionetta possono nella forza intuitiva della metafora oltre che in quella concettualmente discorsiva dell’allegoria ritrovare un tramite in grado di assicurare appieno l’attingimento espressivo di una verità universale sul piano stesso dell’apparenza concreta, cioè della immediata teatralizzazione come figurazione illuminante.

Le mediazioni del significato possono risultare immanenti del tutto alla capacità scenica di un teatro di figura nel quadro ideologico e artistico dei futuristi secondo prospettive che esorcizzano il nulla e la morte o la trascendenza di eventuali controfigure d’un mondo ideale (quando non reagiscano all’<<’honte prométhéenne’ subita dall’uomo da parte del suo alter meccanico (1)>> valorizzando uno spettacolo che esalta, proprio, la tecnica), prospettive che conferiscono valenze per nulla astratte o concettuali allo spazio teatrale su cui si staglia il movimento delle immagini. Marionette ridotte alla cosalità plastica di fantocci e al dinamismo meccanico costituiscono gli approcci a un teatro di figura dei vari Depero, Paladini, Panneggi che rivoluzionano il teatro del primo Novecento distogliendolo dal modello di una drammaturgia di parola e di dialogo. Una drammaturgia, quest’ultima, che entra in crisi, con la possibilità, anche, di fondersi col genere lirico ed epico come accade ad esempio là dove in Drame de la ville méridiane (in Hermaphrodito) , di Alberto Savinio, appare sulla scena un signore con tutti i requisiti di una figura deformata e rigida tra meccanica e fantasmatica (al posto della testa un drappo intorno a un’antenna, gambe rigide come le barre di un tre piedi fotografico, ruote metalliche ai piedi) in un contesto ove si intrecciano immagine, canto, monologo.

In definitiva, secondo i connotati di una nuova drammaturgia in cui abbia un posto di dominante la figura nel suo quoziente scenico ed immaginifico, si tratti di marionetta, burattino, fantoccio, o della stessa dinamica di forze meccaniche producenti un impatto emotivo sullo spettatore, si può legittimare un doppio criterio interpretativo d’una rifondazione del potere finzionale del teatro. Da un lato la figura al posto della persona dialogica è in grado di accentuare, con l’avallo di pittoricità e immaginismo o anche musica, un effetto illusionistico della scena con il conseguente coinvolgimento sensoriale e subliminale dello spettatore, dall’altro lato la figura, proprio evidenziando il carattere finzionale come tale, può giungere a definzionalizzare, sembra quasi un paradosso, la stessa messa in scena, svelarne il meccanismo, inaugurare lo straniamento. Si direbbe che è aperto, al suo ruolo, uno spazio tra gli estremi di una concezione artuadiana dell’impatto scenico sul pubblico e di una concezione di teatro epico che elude l’assoluta autoreferenzialità della pièce classicamente concepita nei modi di una coesione puramente dialogica.

Uno splendido equilibrio tra finzione poetica assoluta e coscienza di costruzione fittizia del mito si ravvisa sotto la specie di un “teatro di figura” in un dettaglio dei pirandelliani Giganti della montagna in cui alcuni fantocci fanno mostra di sé. Nella didascalia del secondo atto si descrive l’atelier delle <<apparizioni>> gestito da Cotrone e qui vengono indicati grossi birilli con capocchia umana e figure tra l’uomo e il fantoccio. Colpisce la coscienza di un fittizio che incanta e impaurisce per via di un fenomeno diremmo di perturbante poiché i fantocci fanno una certa impressione conturbante, <<un certo senso>>, dice Pirandello, ricordando l’umano nell’oggetto inanimato. E’ il gioco infantile con la sua meraviglia e le sue paure che si intravede, di scorcio, nel sottotesto di questi cenni di didascalia.

I giganti della montagna rappresentano la fascinazione del mito. Ma proprio nella svolta epocale del primo Novecento la marionetta, soprattutto nella variante metaforica dell’uomo-marionetta ove la figura di marionetta è introiettata come figura psicologica e comportamentale, ha le credenziali per diventare segnacolo in qualche misura paradigmatico di una certa tensione culturale ed estetica non mitizzante, non incantatrice o poeticamente seducente, ma critica e demistificante. Essa può smarrire o sminuire caratteri essenzialmente ludici che l’avvicinano a una concezione carnevalesca della maschera, allorché intreccia lo spirito inquieto e riflessivo della modernità, conservando magari la traccia d’una maschera, ma pirandellianamente denudata. Può impersonare, insomma, un possibile cambio di ruolo dalla disponibilità alla immediatezza scenica d’una rappresentazione godibile in termini di gioco o di comico puro alla disponibilità verso un comico intriso di inquietudine e autocoscienza critica, tendente, nel suo criticismo, appunto, che congiunge ilarità e serietà, al grottesco. Una bella differenza di approccio al mondo delle marionette corre tra il riso scaturente dalla fantasia teatrale settecentesca di un Pier Jacopo Martello che rappresenta al “Teatro dei bambocci”la marionetta di Ercole in Lo starnuto di Ercole menzionato da Goldoni nei Mémoires e il sentimento che si genera da quello spettacolo di marionette che Pirandello evoca in un passo del Fu Mattia Pascal ove l’ameno teatrino si fa supporto, tramite un allusivo <<strappo nel cielo di carta>>, di un’allegoria del passaggio storico e antropologico dalla coscienza tragica dell’antichità alla perplessità coscienziale del tragico moderno poiché la marionetta di Oreste, sotto la suggestione di quello strappo, non può non trasformarsi nel problematico Amleto, come il Paleari, alter ego dell’Agrigentino, osserva ad Adriano Meis.

Accanto alla coscienza, l’identità individuale stessa dell’uomo moderno tende a problematizzarsi. Lo stereotipo della marionetta, dunque, magari con non evidente marchio figurativo del suo profilo ma con presupposti, almeno, di un immaginario collaterale e ideale, è richiamata dalla figura del doppio, dalla fenomenologia varia che in questo doppio può ritrovarsi, alcuni aspetti della quale hanno radice nella tensione narcisistica dell’io ad allontanare la morte o nella scissione sociale patita tra essere ed apparire, tra percezione del mondo e frantumazione conoscitiva ed esistenziale nella quale l’io si trova gettato. Se guardiamo al doppio considerando il referente oggettivo sociale della sua sovrastruttura ideativa diciamo che è chiamata in causa la crisi d’una società in cui il rapporto organico tra soggetto ed oggetto si è depauperato. Se guardiamo al doppio considerando la raffigurazione a cui dà adito nei termini di un’estetica soggettivistica e irrazionalistica come quella di Gino Gori, possiamo dire che lo straniamento che ad esso porta consiste nel fatto che la veduta soggettiva, focalizzatrice di un oggetto secondo le virtuali linee di forza indotte dalla inquadratura assunta, può scomporre, per un diverso punto di vista, un certo ordine tradizionalmente accettato di questi vettori rettilinei determinando una diversa economia di rapporti tra di loro (2). Ebbene, in base a questa fenomenologia di visione straniante, la figuratività della marionetta, con la eccentricità anatomica e di movimento, potrebbe agevolmente rientrare nel caso di un teatro di figura ispirato al grottesco.

Ma non vanno dimenticati, nel ripercorrere la storia del teatro di marionetta del primo Novecento, certi aspetti specificamente tecnici della sua valorizzazione spettacolare in un contesto mitteleuropeo. C’è tutta una sperimentazione che ha condotto questo tipo di teatro a una raffinata perfezione di messa in scena, basti pensare all’attività di un Teschner e alle tradizioni cecoslovacche. Uno spettacolo di <<specchio di figure>> è, fra l’altro, nell’esperienza tescheneriana del Figurenspiegel.

Sul versante antinaturalista, che fa un po’ da denominatore comune delle molteplici esperienze postottocentesche, lo spirito simbolista della regia teatrale tende, nel primo Novecento, a denaturalizzare la scena e lo stesso attore a favore di una sensibilità pittorica, propiziando la convergenza con un certo tipo del movimento sulla scena che essendo devitalizzato e stilizzato incontra tratti specifici dello stato della marionetta. Presso certi settori avanzati della cultura estetica e teatrale, poi, va tanto avanti l’esigenza di un superamento di ciò che nella dramatis persona naturalista è umano, troppo umano, che si finisce per apprezzare un risultato estremo di precisione ed esattezza geometrica quale solo la macchina, con la sua impersonalità, può attingere. Il collegamento fra questa istanza e un aspetto dello stereotipo marionettistico, quello che attraverso la meccanica supera ogni insidia emotiva o défaillance psicologica, porta a una singolare concezione metafisica della marionetta che con Gordon Craig diventa “Supermarionetta”. Neppure la biomeccanica di Meierchol’d la quale pur punta a superare le debolezze della rappresentazione umana dell’attore raggiunge un ideale di elusione di ciò che è individuale-personale tanto spiccato presso Craig da postulare, alla fin fine, la scomparsa dell’attore medesimo. In vario modo e secondo diverse accezioni, comunque, è in atto una nobilitazione della marionetta come comunicazione con l’assoluto, al punto che proprio l’essere manovrato, attraverso i fili, dall’alto, assurge, presso un Kleist, a segno di un’ascendenza sovrumana, divina, dei suoi paradigmi simbolici, ascendenza che può venir confermata, del resto, da certo archetipo della marionetta stessa inteso in senso religioso. Ma una marionetta così distaccata dal modello naturalistico, tale che da un lato può incontrare, con pieghe anche mistiche, l’istanza metafisica dell’assoluto o magari in certi casi camuffarsi in un accentuato statuto formalistico della stilizzazione come presso la scena d’un Tairov, dall’altro lato può assimilare, con una specifica coltivazione della sensibilità modernistica, un idoleggiamento della macchina che i futuristi esasperano fino ad esaltare lo splendore <<geometrico e meccanico>>, perde possibilità di analogie con quella marionetta che meglio esprime la crisi dell’uomo novecentesco fra identità e sdoppiamento mediante la figura ossimorica dell’uomo marionetta o dell’uomo maschera: la marionetta individuata esemplarmente dall’uomo sansecondiano di Marionette, che passione! o dall’uomo pirandelliano che indossa una maschera o da quel misto tra rigidità della marionetta e volubilità della donna che è esplicato nella protagonista del bontempelliano Nostra dea, rigida come un manichino e pur mutevole di identità in rapporto a un cambiamento di vestito.

Riavvicinandosi all’umano, tuttavia, nascondendosi, anzi, nel palinsesto dell’uomo in carne ed ossa, la marionetta o sue apparentate figure sono esposte potenzialmente sia a virtuale svalutazione assiologia e ideologica, sia ad altrettanto virtuale esaltazione, ideale e politica, d’una alternativa di investimento ideologico ed etico. Nel primo caso l’automatismo, lo stereotipo dell’uomo impacciato che sottostà a certe azioni o comportamenti, incontrerebbe, secondo l’avallo teorico bergsoniano, il deprezzamento e la sanzione sociale derivanti da un’opposizione tra meccanicità ed élan vital, con lo scaturire di un comico situato nelle basse gerarchie dei valori. Ma questo automatismo, se visto come automatismo della persona borghese soggetta ai codici che la manovrano assoggettandola a un moralismo convenzionale, quando non alluda più radicalmente alla violenza cieca e all’assurdo di un sistema sociale, come nella maschera (da marionetta o da maschera egli si comporta) del personaggio Ubu di Jarry, può ispirare un riso corrosivo criticamente impegnato, ed ecco allora l’analogia con lo stereotipo meccanico risollevarsi dalla censura di una manchevolezza individuale ad allegoria di uno scompenso sociale, con l’avallo a una critica verso l’esistente, verso la rigidità ipocrita degli ideali correnti, sulla soglia di una polemica sociale e culturale.

La metafora della marionetta si avvicina, soprattutto per questi secondi aspetti, oltre alla duplicità ridicola di quelle marionette della convenzione che sono i personaggi della commedia grottesca degli anni dieci, nei vari La maschera e il volto, L’uomo che incontrò se stesso, L’uccello del paradiso, al personaggio pirandelliano, all’istanza d’un particolarissimo doppio che attraversa questo personaggio, alla dialettica, in definitiva, del contrario, propria dell’umorismo nella sua accezione più specificamente scompositiva e disgregante. Tuttavia scomposizione e disgregazione non significano necessariamente abolizione di una tensione alla figuratività (allo stesso modo che, starei per dire, secondo Walter Benjamin, descrizione di ciò che è confuso non implica necessariamente descrizione confusa). Tutt’altro che inibito, dunque, presso i grotteschi, un approssimarsi agli stereotipi di teatro di figura, teatro anche adeguato all’idea del metateatro, come mi sembra emerga in quella didascalia sull’apparizione dei Sei personaggi in cerca d’autore che per certi aspetti vanno confrontati, a parte le differenze, con alcune istanze teoriche e figurative contigue allo statuto della Supermarionetta di Craig: <<Le maschere>>, annota Pirandello, <<ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale>>.

Ma non solo nella poetica in atto, già nella concezione del mondo e dell’arte dell’Agrigentino, ovverosia nella teoria umoristica, possiamo trovare tracce, nascoste, della marionetta come figura. Pensiamo alla immaginazione pirandelliana che metaforizza, a un certo punto del saggio sull’umorismo, verso la fine del discorso quindi in posizione conclusiva, la sostanza sottile ed eterea che sarebbe la riflessione fondata sul sentimento del contrario. Questa riflessione è vista come ombra, e un’ombra particolarmente conformata, tale che nelle smorfie in cui si contorce sembra implicare , in sottinteso, un confronto con ciò che è marionettistico. Dopo aver ribadito che la riflessione segue passo passo il sentimento come l’ombra segue il corpo, Pirandello scrive:

L’artista ordinario bada al corpo solamente: l’umorista bada al corpo e all’ombra, e talvolta più all’ombra che al corpo; nota tutti gli scherzi di quest’ombra, com’essa ora s’allunghi ed ora s’intozzi, quasi a far le smorfie al corpo, che intanto non la calcola e non la cura (3).

Ora noi sappiamo che l’ombra può essere un personaggio scenico codificato, stante l’esistenza storica del teatro di ombre. Tanto più possiamo dire, dunque, che questa ombra che presso Pirandello illustra movimenti, come sembra, di marionettizzazione del corpo, è una metafora teatrale dell’umorismo, ed identificando per analogia qualcosa di prossimo alla marionetta stessa, può costituire una chiave per entrare nell’affinità fra concezione artistica pirandelliana e un teatro di marionetta appunto, di una marionetta che, ridotta a figura umbratile, esprime una forma di doppio a cui è legato il personaggio uomo nell’unificazione di teoria umoristica e teatro di figura. E c’è poi una marionetta o un’ombra, in Pirandello, che esemplificano la teoria sul piano della individuazione scenica assumendo uno spettro di varianti dal grottesco al tragico. E’ nel patetico che l’ombra nella quale Mattia Pascal vede sdoppiarsi la propria persona alla fine del XV capitolo recupera, pur solo parzialmente, una dimensione quasi fisica:

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

La marionetta siciliana, poi, il “pupo”, in una battuta di Ciampa nel primo atto del Berretto a sonagli, rappresenta una singolare conciliazione tra la dimensione comica e popolare di un certo tipo di teatro e l’idea del divino che muove la marionetta stessa (<<lo spirito divino>>) nonché la capacità del fantoccio di trascendere il comico effimero e farsi interprete del simbolo sociale, della “parte” che si recita nella società:

Ciampa   …Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato…

Fra le proposte drammaturgiche che hanno assecondato riferimenti alla realtà artistica della marionetta nonché alla sua metafora aperta ai correlati del “doppio”, ne considero ora, da vicino, tre, particolarmente esemplari di una scelta diversificata di temi e moduli pur attraversati da certi denominatori comuni.

In Poupées électriques di Marinetti il fenomeno del doppio è collegato a stereotipi ideologici della contemporanea società borghese: il matrimonio e la famiglia personificati da fantocci aventi una spiccata figura umana di fronte ai quali agiscono personaggi in carne ed ossa formanti una coppia. Con questa che è una delle prime pièces marinettiane, ridotta poi alla sintesi Elettricità sessuale, la convergenza fra uomo e marionetta-fantoccio risiede nell’immagine antropomorfica dei pupazzi, peraltro dai connotati iconografici molto incisivamente stilizzati in senso tra realistico e grottesco. Ma ci troviamo di fronte a un caso in cui la figura riesce a sorpassare ogni ruolo puramente decorativo poiché il distacco tra personaggi protagonisti e icone viene colmato da un legame inconscio di sottile perversione sensuale e di accenni a un freudiano “perturbante”.

Se in Poupées électriques troviamo fantocci che immedesimano, metaforizzandole, istituzioni sociali, in Siepe a Nordovest di Massimo Bontempelli simboli o allegorie occorre ricavarli dall’originale collaborazione, sulla scena, di personaggi normali, marionette, burattini. Individui umani e marionette agiscono su uno spazio comune dove si incontrano ma non si vedono tra di loro e però interferiscono reciprocamente nelle azioni con una serie di casi che appaiono portentosi. La musica che accompagna per non pochi tratti la scena coopera al carattere di una drammaturgia che scarta i paradigmi della commedia tradizionale tendendo a un complesso spettacolare il quale accentua il ruolo di un teatro di figura, quello che si trova, ad esempio, mutatis mutandis, presso un Podrecca. Il testo bontempelliano è assai originale per il combinarsi di diversi livelli teatrali con l’esito di una peculiare mescidanza di strutture drammaturgiche. Le marionette che simulano re, regina ed eroe rappresentano un plot per certi aspetti parallelo a un altro plot portato avanti dai personaggi attori: entrambi gli intrecci trattano del tema di coppia ma mentre il dramma delle marionette si svolge sul piano di un’alta compitezza formale, il dramma dei personaggi richiama la volgare vicenda del “triangolo” propria della commedia borghese. Le marionette allegorizzano, direi, la capacità creativa del teatro di marionette di oltrepassare il senso limitato dell’empirico guardare: non è casuale che esse saranno viste solo da una professionista di magia, un zingara , alla quale dirà il marionettista: <<…se hai potuto vederle, vuol dire che sei razza anche tu di burattinai>> (4). Però, il dato più significativo in questa pièce, è forse quello per cui le marionette, di fronte ai personaggi in carne ed ossa, costituiscono un termine di differenza, uno scarto di stile e prospettiva fantastica, dunque da una parte possono suscitare rilievo a un comico borghese che si delinea, ad esse contrapposto, relativizzato, come in una implicita mise en abyme, dunque come in un metateatro che potenzia il valore della proiezione figurativa, dall’altra parte esse stesse marionette possono accentuare, opponendosi ai personaggi, il proprio carattere di figura, di proiezione fantastica, onirica, simbolica. Personaggi umani visti in rapporto a personaggi marionette, e viceversa, creano i presupposti per un tasso di finzionalità del dramma proprio di un teatro di figura al quale si assimila la parte stessa della pièce recitata da personaggi uomini in un intreccio che rovescia i tradizionali segni del verismo. Significativo è che nelle ultime battute del secondo atto pronunciate dai burattini Napoleone e Colombina a commento del dramma, viene intravisto, oltre alle differenze intercorrenti fra i due gruppi di attori personaggi e attori-marionette, un collegamento tra lo stereotipo dell’uno e quello dell’altro nell’uomo simile alla marionetta:

Colombina Se debbo dirti la verità , mi sono più simpatiche le marionette che gli uomini

Napoleone Anche a me: sono gente più seria

Colombina E gli uomini hanno un che di marionetta.

Napoleone E noi che siamo?

Colombina Noi siamo veri, che c’entra? Ma sta zitto:Eccoli. (5)

Ma pur sempre queste marionette rimangono marionette, i personaggi uomini restano uomini. Il carattere ossimorico umano-non umano è, in definitiva, abbastanza debole, mentre non lo è nella tormentata e organicamente umanizzata visione della marionetta di Pier Maria Rosso di San Secondo pur ribaltandosi, questa marionetta, marcatamente nella pianta uomo.

Certamente Marionette, che passione! ha un posto di singolare rilievo nel primo Novecento. Come Poupées électriques di Marinetti esibisce l’essere marionetta nel titolo stesso del dramma ma lo prospetta sul versante, diverso, di esseri passionali: non fantocci elettrici ma uomini marionette o marionette metaforiche, con una carica di orientamento ideologico e artistico non indifferente, contrassegno di una spiccata presa di posizione storico-culturale e di poetica. Marionette dunque tutt’altro che semplici meccanismi di fantocci, metafore ma anche perfetti ossimori, almeno nel ruolo dichiarato, di umanità e di meccanismo. E non solo nel titolo, altresì nel finale del Preludio al dramma, preludio che come il titolo ha un forte valore paratestuale, si delinea una propensione alla figura umano-marionettistica, nella variante, tuttavia, più bassa, del burattino:

Aggiustandomi la cravatta, che minaccia irragionevoli smanie, mi abbottono nel mio pastrano, e sento, non senza legittima soddisfazione, che l’amido del colletto frena le irrequiete corde della mia nuca, le quali vorrebbero, tirando in tutti i versi, comunicare al mio capo non so che ambigui moti burattineschi, con di più smorfie di viso e boccacce che indignerebbero il rispettabile pubblico (6). .

Qui l’autore, dopo aver espresso in forma lirico-prosastica il sottofondo umano e psicologico che motiva l’intreccio della pièce, proiettando se stesso in una figura di burattino fa pensare che sia stato presente, almeno in parte, certo carattere giocoso e irriverente nel background della creazione drammaturgia. Ma contigua al Preludio si può considerare una Avvertenza per gli attori che, immettendo lo spettatore nell’esecuzione del dramma medesimo, ne è un antecedente più diretto. Dunque è plausibile che la fantasia della marionetta dominante nell’Avvertenza riesca in certa misura a mediare il livello basso del grottesco, emergente dal finale del Preludio, nel livello alto del tragico espressionistico propiziando una delle più complesse e originali concezioni dello stereotipo figurativo e semantico della marionetta novecentesca.

L’Avvertenza afferma:

Tengano presente gli attori che questa è una commedia di pause disperate. Le parole che vi si dicono celano sempre una esasperazione che non può essere resa se non in sapienti silenzi. L’arbitrario, inoltre, che può parere vi sia nella commedia, risultando dal tormento in cui si macerano i personaggi, non deve dar luogo al comico, bensì a un sentimento di tragico umorismo. Pur soffrendo, infatti, pene profondamente umane, i tre personaggi del dramma, specialmente, sono come marionette, e il loro filo è la passione. Sono tuttavia uomini: uomini, ridotti marionette. E, dunque, profondamente pietosi! (7)

E’ come il manifesto di una visione della marionetta profondamente psicologico-esistenziale e, nello stesso tempo, vivamente scenica e metaforica nonché aperta ad uno spettro ampio di significanze. Partito dall’idea di un certo comportamento umano e sociale già traguardato in Preludio, Rosso arriva alla focalizzazione di un determinato cliché rappresentativo ma questo procedimento, dall’idea alla rappresentazione, non appare meccanicamente rettilineo e deterministico: rispecchia bensì contraddizioni della genesi artistica che si proiettano sulla polisemia della resa scenica. Infatti, come mostra l’Avvertenza, si passa dall’umanità disperata, all’<<arbitrario>>, emblema di una caratteristica prossima al marionettismo nella minore profondità delle motivazioni sottese all’agire, ma poi si risale all’umano fino ai confini della pietas, in gradi paralleli di scepsi e di visualizzazione teatrale. Questa Avvertenza illustra dunque un percorso accidentato anche se necessario, assimilato all’intuizione storica e metafisica di una condizione volubile e nello stesso tempo destinale dell’uomo moderno. La marionetta non solo postulando traits-d’union tra figura scenica da una parte, pensiero critico e pathos morale, dall’altra parte, ma manifestando nel suo creatore una coscienza attiva di questi legami come quid autocoscienziale del dramma, ovverosia come metateatro, si fa prototipo di ogni sperimentalismo che, valorizzando oltre all’azione la componente di figura dello spettacolo, esprima, nel gioco dell’icona e della sua dialettica tra identità e differenza, potenza icastica del segno e in-transitività dell’immagine, le preclusioni per l’artista moderno o postmoderno di un rapporto fedelmente imitativo con una realtà oggettiva, e le facoltà, invece, a loro modo esteticamente feconde, di vedere questa realtà come proiezione della mente e del cuore, con una immedesimazione, in definitiva, più che nel finto, nel sapere fingere una finzione.

                                                               ROBERTO SALSANO

Università di Roma Tre

                                                                                                                                                                                  

                                                              

 

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(1) Anna Barsotti, Pupi, marionette, robots tra futurismi e pirandellismi in Anna Bonacci e la drammaturgia sommersa degli anni ’30-’50, a c. di Anna T. Ossani e Tiziana Mattioli, Pesaro, Metauro, 2003, p. 334.

(2) Si può trovare l’esposizione goriana della teoria delle “linee di forza” in , Paola D. Giovanelli, Gino Gori: Il Grottesco e altri studi teatrali, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 62-63.

(3) Luigi Pirandello, Saggi, poesie, scritti vari a c. di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondatori, 19   , p.

(4) Massimo Bontempelli, Nostra dea e altre commedie, a cura di Alessandro Tinterri, Torino, Einaudi, 1989, p. 70.

(5) ivi, pp. 63-64.

(6) Pier Maria Rosso di San Secondo, Teatro, vol I, a c. di Ruggero Jacobbi, Roma, Bulzoni, 1976, p.132.

(7) ivi, p. 133..

Pantalone: "Oi, che oi, che oi, che marediana.  Mi son poro vecio Pantalon che ghè tocca semper fatigar, e pensar che mi go' un servo che se ciama Arlecchìn, che  xè un fanfaricchio de' quattro cote, e se smentega semper de far el sò lavor, de' portarghe a mì la colazion a leto, desvegiandome con cura e amor servile. Se mì vogio iniziar la ziornata, me toca prepar la colazion a elo, andar in cusina, imburrar le fete de pan, e metter sora la marmelada dè fichi turchi, preparar el cafè,  mettar lo zucro, e mettar tutto su un vasoio, e poi, in punta dè pìe, vèrzar la  porta dea camera dè Arlecchìn, vèrzar la fenestra, far entrar un po' de' luze e ruziada, spruzzaghe un po' sua facia coi didi, spricchete, spracchete, spricchete, spracchete, versar el cafè nea tazzina,  mescolar lo zucro, e porgere el cafè a elo, e dir con molta calma, ma, molta, calma (urlando) Alora ! Te ghe voi alzarte! desgrazià d'un sevidor. Mì sol Paron! Mì sol Paron ! Mì sol Paron ! Son mì che me dovria aspettar la colazion a leto,  e farme desvegiar da l'aroma del buon cafè, desgrazià d'un servidor. (Pantalone mima l'uscita di scena di Arlecchino da sx a dx) Hei dove te vai ? Non gò mina finio de' parlar  con tigo, desgrasià ! Dove te vai ? hei dove te vai? (rivolto al pubblico, voce grave) Ma xe tutto matto elo, non ghè tiene nessun rispeto per el sò Paron, e me sa tanto che lo licenzio !  Si lo licenzio ! A mì, me l'avevano detto che g'hera una testa de legno...voda, de' cirmolo ! E mì non g'ho dà ascolto a sierte dicerie, a sierte male lingue dea zente. E pensar che ghe dò da magnar una volta a la setimana, che ghe dò la paga una volta a l'ano, e che ghe dò libera uscita ogni lustro (si guarda i piedi). A proposito di lustro, me ghe devo far lustrar le pantofoe da elo, perché son pien de mota. Quando ghè ariva me devo ricordar de' farghe dar una bela lustrada.....

Però che stano, oggi me ghè sento strano, .... come se qualcun me g'avesse infilà una man nel vestito e me dese la vose, il movimento , l'idioma, in sostanza la vita. Insomma come se qualcun dentro dè mì me comandase, dal basso verso l'alto, a mì che sol Paron, el Paron dea Comedia dell'Arte!!!!!!!......... (segue).

Testo (tutelato SIAE) di Vittorio Zanella, tratto dallo spettacolo "IL MANIFESTO DEI BURATTINI" (produzione 1984). Vincitore del Mobarak d'oro al 9° Festival Internazionale di Tehran (2002). Vincitore del Festival Nazionale dei Corti Teatrali "IN BREVE" organizzato dalla LIIT, a Firenze - Teatro Puccini ( 2008). 

Claudio Rovagna

Mi voglio riallacciare proprio all’ultima parte della relazione del professor Salsano, su ” marionette…che passione”, che poi è stata proprio l’occasione di incontro per la nostra associazione specchi sonori, per Marianna de leoni e per me, con il professore, su questo testo così conosciuto, ma anche così ignorato dal nostro teatro, poco rappresentato. Di testi di Luigi Pirandello, cosa giusta, per carità!, sono pieni i cartelloni di tutti i teatri ogni anno,quando invece un autore di uno spessore assolutamente europeo, ne parlavamo proprio ieri,di spessore europeo perché pur se calato nella propria Sicilia, vede tutta l’Europa e sente tutto quello che avviene che riesce a portarlo in un contesto teatrale, fortemente teatrale, volutamente teatrale con delle intuizioni che vanno al di là di quella che è la prima lettura: essendo testo teatrale non si accontenta della prima lettura.

Se non avete letto “Marionette… che passione, di Rosso di San Secondo o se l’avete letto un po’ di tempo fa, leggete il testo e, dopo un poco di tempo, rileggetelo   ancora, perché senza vedere una buona rappresentazione teatrale non può funzionare la semplice lettura. Così come non può funzionare la prima stesura di un commento musicale di un lavoro di questo spessore, in quanto in un musicista quest’opera muove delle linee drammaturgiche mentali talmente complesse e di possibilità così vaste, che egli deve riuscire ad esperirle per comprendere cosa può funzionare per un testo del genere. Questo presuppone un mio comporre la musica non come “tappezzeria” sonora”.   Proprio come diceva Strawinskji quando lo chiamarono per comporre musica da film, e purtroppo influenzò molti compositori dell’epoca, essendo lui proprio, fra l’altro, uno dei pochi compositori di musica per marionette dichiaratamente. Era il nuovo mezzo che nasceva: il cinema, forse non ancora compreso nelle sue potenzialità.

Non come tappezzeria sonora, quindi, come talvolta viene utilizzata la musica in scena, bensì come drammaturgia sonora, per la potenza di ciò che evoca per il pubblico; un mezzo che ha la possibilità di”passare”, senza mediazioni e questa è una responsabilità molto grande del musicista e di chi utilizza la musica,in quanto gli altri linguaggi sono mediati e quello musicale no.

Esso arriva quindi direttamente; una cattiva colonna sonora riesce purtroppo ad allontanare il pubblico più di un cattivo attore; quando vediamo un film con una pessima recitazione può accadere che una colonna sonora riesca a dare al film, si dice a Roma,” una salvata”….

Io fui chiamato a volte a fare operazioni di salvataggio: “… guarda, questo film è purtroppo…che ci fai una musica che possa … salvarlo?” La musica ha anche questa capacità, ma al contempo ha una grande responsabilità.

In un testo così importante il livello non può essere altro che quello del “doppio”, di una doppia interpretazione della drammaturgia musicale che da una parte non può fare a meno di guardare al tempo delle Avanguardie, in quegli anni così pieni di idee e di intuizioni, di lazzi,anche divagazioni, ma molto significative ed importanti per noi del 2000; dall’altra parte, invece, anche all’attualizzazione, tenendo presente quindi il nostro senso di quello che è il rumore,il nostro vivere quotidiano, il nostro bersagliamento continuo…che questo doppio interrompe…..

Poiché sono musicista ho portato qualche brano degli studi fatti da far sentire come contributo, non interamente poiché hanno durata anche di 50 min, ma qualche piccolo esempio del viaggio che è stato fatto. Un brano che è stato il primo che mi venne in mente per Pierrot, in questo caso, quindi una marionetta molto particolare, anni fa a Roma. Il brano mi venne in mente proprio in teatro, c’era un pianoforte a lato, c’era un lavoro da rappresentare, mi venne improvvisamente il tema e mi misi a suonare….

ASCOLTO DEL BRANO:

questa breve idea si presta ad essere reinterpretata dal vivo in tanti modi; qui l’ho fermata (e servirebbe un discorso ora, ma forse non è la sede adatta, su quella che è la differenza tra musica dal vivo e musica registrata) io utilizzo tutte due le forme: la musica dal vivo e quella registrata, anzi preferirei usarle entrambe contemporaneamente come abbiamo fatto in” notte di guerra al museo del Prado” ,qui al teatro Animosi,dove c’erano canzoni di Garcia Lorca eseguite dal vivo ed altre musiche invece composte e poi registrate .

Si potrebbe parlare a lungo su questo tema della musica registrata: secondo me è un problema di funzionalità che si dà alla colonna sonora, se si dà ad essa una funzione di attore in scena allora non può che essere musica dal vivo,per me sarebbe impensabile Mimmo Cuticchio con la musica registrata, anche se poi l’ha fatto, però secondo me, quando Mimmo ha con sé il teatrino dei pupi, i veri pupi, la musica registrata ucciderebbe tutto quanto come per te, Francesco (si rivolge a Francesco Firpo), come quando suoni di quei colpi di gong bellissimi, dietro nella tua baracca: se fossero registrati sarebbero tutt’altra cosa. Tu utilizzi anche musica registrata, ma le dài un’altra funzione,una funzione drammaturgica affatto diversa.

Per passare dunque a degli accompagnamenti, che ho deciso solamente da due anni di fermare, di registrare; Infatti essi erano per me inizialmente musica di scena, musiche vive, che per me vivevano nel momento in cui si andava in scena, in teatro, che avrei suonato nuovamente, che avevo dentro come idea… poi qualcuno mi ha detto: “Claudio, perché non le fermi?”

Ecco una cosa molto faticosa da fare: fermare una musica in movimento, però mi ci sono messo e queste idee che mi sono portato appresso per parecchio tempo, per anni, ho cercato di fermarle come questo tema per Pulcinella che ora vi faccio ascoltare …Fu fatta una mostra a Napoli,con il contributo di Dario Fo, fu fatta una mostra sia sul burattino Pulcinella , sia sulla maschera; composi questa musica che eseguivo al piano confrontandola con la rappresentazione della maschera e con la rappresentazione del burattino…per me cambiava completamente il tempo musicale,tra l’uomo e il burattino. Il pezzo era lo stesso:” Pulcinella”. Suonandolo dal vivo sentivo la profonda differenza: quando c’era l’uomo era un po’ più” da battaglia”, con il movimento umano la musica è sempre più faticosa; quando la interpretava il burattino il pezzo volava, non riuscivo a stargli dietro con le mani…ascoltate ora, non parlo più

Ascolto brano “Pulcinella”

E via discorrendo, un personaggio con varie modalità, varie velocità. Questa era l’esperienza con Pulcinella, un’esperienza a cui sono molto legato, per come ha vissuto e per come si è evoluta.

La differenza dunque della musica registrata: quella per cui tu fissi, fermi qualcosa, dài una forma compiuta, quella per cui il compositore quando scrive la musica mette ad un certo punto pone la parola” fine”, così come avviene per lo scrittore del romanzo. Il compositore a un certo punto ha come l’esigenza di porre questa fine, di liberarsi dell’opera, quello è il momento del distacco.

Alcuni temi musicali ci fanno compagnia a lungo, di altri ti devi liberare, una volta finite le musiche devono essere consegnate al pubblico e poi te ne dimentichi; probabilmente le vai a risentire dopo un anno e ti appaiono quasi scritte da un’altra persona, perché sono già uscite e questo succede, molte volte, con le musiche composte per spettacoli, quando le finalizzi bene: un esempio può essere questo spettacolo il cui titolo sembra si adatti bene alla manifestazione di oggi, spettacolo che si chiamava “Gabbia di matti”, uno spettacolo dove erano presenti dal Teatro di figura, alle giocolerie… era una tavola apparecchiata per il pubblico, il pubblico entrava e trovava per lui, sul palcoscenico, dei tavoli apparecchiati ,tre tavoli venivano preparati : uno era un tavolo di signori, un tavolo era per le persone medie, uno per i poveracci ….quando si riapriva il sipario lo spettacolo era di là dall’altra parte. Era uno spettacolo “sul confine”, erano gli anni 70 e che cosa fossero quegli anni tutti ben sanno… quest’era Gabbia di matti… un tema ripetitivo

Ascolto del brano gabbia di matti

Alla fine dello spettacoloavevo preparato all’inizio due min di questa stessa musica, la gente voleva che la rimettessi, voleva riascoltarla, alla fine ho dovuto preparare una cassetta con ben trenta min di questo brano! Lasciata così di sottofondo questa musica creava in effetti un’atmosfera… ed io sono un po’ “fissato” di avere musica quando lo spettatore arriva, anche per il teatro di strada: voglio musica per il momento in cui lo spettatore arriva e quello in cui se ne va.

Molti non vogliono che ci sia suono, vogliono la musica soltanto per quando si svolge lo spettacolo, per quando avviene il fatto, per quando incomincia.

A me, come musicista, interessa anche lo spazio, lo spazio per il pubblico,che sia piazza, che sia teatro; e questo spazio secondo me va preparato, lo spettatore va secondo me preparato, va coccolato,va portato, non va “sbattuto” in un luogo, in uno spazio e catapultato in un’altra situazione… va un po’ introdotto ,se possibile perché talvolta come sapete non è possibile, anche una situazione di piazza; dove è possibile va va invitato con la musica…con una musica composta proprio per quello spazio… ed allora arrivo con quella musica giusta, per quel pubblico,per creare quel tipo di atmosfera che mi servirà per quel pubblico.

Il lavoro, quindi,per concludere rapidamente,il lavoro musicale è totalmente, naturalmente legato alla marionetta,eppure presenta una contraddizione: tant’è che se si cerca sul dizionario si trova: “musica da film, musica per il teatro, musica per il melodramma…”, ma non si trova “musica per marionette”… quando tutti sanno che da Haydn, fino ai giorni d’oggi, tutti più grandi compositori hanno scritto per le marionette: Casella, Malipiero, Prokofiev, i nomi sono quelli dei compositori del tempo…Hindemith; i nomi sono quelli di tutti coloro che vi si sono dedicati…Bela Bartok, nei cinque balli plastici (sembra che gli ultimi due temi dei cinque balli plastici siano quelli firmati con uno pseudonimo da Bela Bartok perché non voleva figurare perché forse era un po’ disdicevole)…con Depero… con un ambasciatore inglese che aveva firmato il primo tema;   Malipiero fece il terzo e Casella fu il supervisore con il suo tema, incredibile,”Pupazzetti”.

Parlavamo infatti proprio ieri di Casella come uno dei compositori più fecondi, aperto alle esperienze più disparate ,arriva a comporre qualcosa di assurdo, ovvero una composizione per pianola meccanica,uno strumento costruito negli anni ‘20,che era un pianoforte che suonava da solo: questo era! Uno strumento che arrivò ad un punto tale di perfezionamento tecnico da avere i rulli incisi su un piano pneumatico, in cui l’aria compressa muoveva i tasti e faceva sì che tu vedessi muoversi i tasti da soli …senza vedere altro…un altro tipo era costituito da “ dita finte”, ottantotto dita finte che si inseriscono sul pianoforte e suonano i tasti, ottantotto tasti quindi, simulando le dita del pianista. Per questi mezzi in quegli anni incisero tutti, tutti i grandi pianisti quegli anni hanno suonato ed inciso dischi per questo tipo di strumenti e di mezzi, come Gershwin ,Malipiero ha anche ha scritto un pezzo meraviglioso per questo strumento, e Casella anche si interessò a questo mezzo: ha scritto, come ho già detto, un pezzo composto da tre brani: una danza,un reggae ed una parte centrale più concertistica, in cui ad un certo punto il pianoforte fa un cosiddetto cluster di piano,con tutti gli ottantotto tasti, fa un crescendo graduale che arriva a far suonare tutti gli ottantotto tasti.

Mi ricordo che al Museo degli strumenti musicali, a Roma, decidemmo di eseguire questo brano e mi dissi: “lo registro, ma… un pianoforte a coda Fazioli, azionato da questa macchina! “Immaginate ad un certo punto il volume raggiunto: un fortissimo, più che fortissimo mai possibile a nessun pianista! Alla fine riuscimmo a fare questa registrazione, che ancora conservo, con una qualche difficoltà e quella era veramente una musica per automa meccanico, era qualcosa di straordinario.

È presente anche nella musica tutto un discorso di automi, perché costruire automi musicali? Addirittura il primo automa costruito fu musicale: il suonatore di flauto costruito, se non vado errato, intorno al 1750 per il quale questo autore, questo inventore francese, cui   sono state attribuite doti di magia, costruì un automa che riproduceva esattamente non solo il suono ma il modo di suonare il flauto e quindi di fronte agli stupiti spettatori si esibiva questa statua a suonando il flauto… che siamo nuovamente nell’ambito del “doppio “, poteva bastare per farlo un vero suonatore di flauto, ma l’automa, il finto suonatore di flauto, attraeva e stupiva molto di più, come doppio virtuale di se stesso.

Grazie.

Claudio Rovagna

Claudio Rovagna:” a parte il nostro presentatore burattino, scusate vorrei spendere due parole per introdurre sauro macera e specificare un attimo che ci stiamo come allontanando, si allontanando dal discorso più tecnico e specialistico della marionetta e del burattino per arrivare alla capacità terapeutiche che essi hanno; d’altronde anche Cesare felici era terapeuta che usava la marionetta come terapia.

Da un po’ di tempo iniziata per noi dell’associazione Specchi Sonori e del Centro Studi sul Teatro di Figura Cesare Felici una collaborazione con un centro di Livorno: il centro CMD Todaro, una cooperativa che ad opera sia la danza terapia, sia tecniche teatrali sia quello che Sauro Macera vi spiegherà meglio di me.

La nostra è una collaborazione fattiva con l’utilizzo per noi e di tecniche di animazione… La gente crede,spesso oggi, che marionette e burattini siano adatte ai bambini: esse sono adatte anche a soggetti psicotici.

Sauro c’è parlerà della loro esperienza-

Sauro Macera

Salve a tutti, sono Sauro, come Claudio vi ha già accennato la mia formazione molto diversa dalla vostra, provengo dalla danza terapia, dalla psicomotricità, dalla fisioterapia… però mi ha colpito molto l’entusiasmo vostro, vedere la passione che mettete in quello che fate, che mette nel vostro lavoro e questo è probabilmente quello che ci accomuna. Mi piace vedere queste belle energie e questa passione. Io porterò un’esperienza a diversa da quella proposta ma che ci avvicina moltissimo. Da qualche anno io, ormai sono circa una quindicina di anni, lavoro con patologie gravissime viene indicato psicofisici, dalla tetra paresi spastica in poi… ma con il tempo mi sono reso conto che parlare di patologie non mi conduceva a niente, non in non mi interessava, quanto iniziare a parlare delle persone, di quello che la persona poteva, nonostante i limiti, riuscire ad esprimere e a fare. Ho visto con il tempo che integrando vari linguaggi, dal teatro alla danza, si riusciva a dare a queste persone modo di espressione, che queste persone riuscivano ad esprimere cose incredibili e soprattutto veder risvegliare in loro un senso, una voglia di vivere e l’accensione di una speranza. Si vede proprio accendersi in loro una speranza. Quello che voglio portare oggi è una semplice e pura testimonianza, la testimonianza di qualcosa che porto sulla pelle è che ho vissuto: la storia di Mario.

Mario ragazzo che è rimasto su una sedia a rotelle all’età di 15 anni, fino a quel momento era stato un ragazzo come tanti altri: andava in bicicletta, correva, saltava e tutto il resto. Un giorno purtroppo in conseguenza di un incidente rimase in coma e da questo coma ha sviluppato una tetra paresi spastica, e così è rimasto fino a quando è morto, è morto due anni fa.

È rimasto su questa carrozzina, quando l’ho incontrato muoveva soltanto la testa, muoveva appena la testa e sollevava il braccio in questo modo ( sauro macera indica il movimento), con gli arti completamente deformati dalla patologia ,però con un sorriso incredibile, non parlava, parlava soltanto con gli occhi. Con lui abbiamo iniziato un percorso bellissimo perché è attraverso le informazioni che ottenevo da chi lo aveva assistito il curato, attraverso l’incontro con i suoi insegnanti, attraverso anche l’incontro con i suoi familiari e con i suoi genitori venne fuori la sua passione per i burattini e le marionette. Da lì abbiamo iniziato a sviluppare un percorso. Un percorso che partito proprio prendendo in esame la metafora della marionetta , anche perché una persona disabile, spesso, incarna questa metafora, è una persona completamente nelle mani di un’altra persona: che lo sposta, lo lava, gli dà da mangiare, lo alza e così via per cui è qualcuno totalmente nelle mani di un’altra persona.

Allora perché non lavorarci sopra? Perché non partire da questo elemento e trasformarlo in un percorso di lavoro, ma per lui, che scaturisse da questa sua passione. In quei giorni stavo riguardando per caso un vecchio film di Pasolini… cosa sono le nuvole. Cosa sono le nuvole è un film è, non so se lo conoscete, molto bello che parla… di marionette, ci sono delle marionette impersonate da grandi attori come Franco franchi, Ciccio in Versilia, Piera degli esposti, Ninetto Davoli, vi è Modugno che e canta, ad un certo punto del film è… un film è bellissimo.

Queste marionette, nel film, hanno vissuto guardando sempre il mondo dalla stessa prospettiva, sempre dal palcoscenico, quindi in questa prospettiva verticale, guardando da lì il mondo del teatro dove venivano messe in scena le loro storie, e non avevano fatto mai altra esperienza….trascorso il loro momento, il momento della rappresentazione, venivano messe in disuso, lasciate appese in un magazzino… ad invecchiare.

Finché, invecchiate, non più utilizzabili, venivano prese, caricate su questo camion e portate in una discarica. Sono quindi gettate via, buttate via, non più utili allo spettacolo, non più utili alla società. Un altro elemento forte il provocatorio legato al mondo della disabilità.

Presi e buttati in questa discarica. In questa discarica, nella terra si ritrovano Totò e Ninetto Davoli, che sono due marionette, si ritrovano improvvisamente a guardare il mondo da terra, da sdraiati e guardano il cielo.

Ninetto Davoli vede in cielo queste nuvole, non sa cosa sono, le guarda e rimane meravigliato di questo scenario che per la prima volta vede e chiede a Totò: ”… ma cosa sono quelle?” Totò allora gli risponde:” sono le nuvole” “---ma cosa sono le nuvole? – Perché non aveva fatto esperienza, mai delle nuvole”

Totò risponde:” Boh!... Meravigliosa, straziante bellezza del creato ”-gli viene subito da rispondere.

Ecco da lì inizia la trasformazione, che inizia anche per noi l’idea del percorso: riscoprire questo mondo sensoriale, fatto di relazioni, fatto di sensazioni, fatto di percezioni. Riscoprire quest’altra dimensione, la dimensione più bella perché quella dove avviene la reciprocità e quindi l’incontro.

C’è un incontro in quest’esperienza dove io divengo un facilitatore e l’altro diventa il protagonista del percorso. Gli esperimenti che abbiamo utilizzato li ho presi dalle esperienze fatte con il teatro, avendo fatto esperienza anche di formazione come danza terapeuta, ma soprattutto li ho presi da tecniche di mobilizzazione della riabilitazione più classica; mettendo insieme queste diverse componenti è venuto fuori uno spettacolo che noi abbiamo messo in scena e che abbiamo poi riproposto negli anni… poi purtroppo Mario è morto, la figura del protagonista è venuta a mancare… ma il lavoro è rimasto. Un lavoro che poi si è sviluppato e che ci ha portato alla collaborazione con Marianna e Claudio, quindi abbiamo avuto la fortuna di conoscere anche Antonietta e tutto il lavoro di Cesare che per me, come terapeuta, costituisce una prospettiva di lavoro non indifferente.

Vedremo dopo qualche spezzone del video che illustra questo lavoro, potendo proiettare il film è negli spazi della sala Carrara è creare dove ci rechiamo, alla fine della mattinata, in tanto con la collaborazione con Eva posso mostrarvi alcuni tipi di movimento fra quelli studiati di impiegati nel lavoro e insieme a Mario.

Dimostrazione dei movimenti del metodo ,  mutuati dal Teatro di marionette e applicati nel percorso.

Sauro Macera